Opinioni

CASO MORI E ALTRI NODI GIUDIZIARI. Benvenuta «refluenza»

Danilo Paolini venerdì 19 luglio 2013
Strana parola, «refluenza». Non si trova nemmeno nello Zingarelli, il quale però riporta il verbo «refluire», forma rara del già dotto «rifluire». Significa, nell’accezione che qui c’interessa, «scorrere indietro». Bisogna vedere rispetto a che cosa. Già, perché il ricercatissimo vocabolo è stato utilizzato dal procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi qualche ora prima della sentenza che mercoledì ha assolto il generale dei Carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu dall’infamante accusa di aver favorito Cosa nostra rinunciando alla cattura del boss Provenzano. Il verdetto «potrà avere una refluenza sul processo per la trattativa tra Stato e mafia», aveva riconosciuto il magistrato subentrato ad Antonio Ingroia nel coordinamento di quel procedimento penale, affrettandosi poi a precisare: «Ma non di grandissima importanza». Forse presentiva il colpo di maglio che di lì a poco i giudici avrebbero inferto all’impianto accusatorio costruito intorno ai due ufficiali dell’Arma. Fatto sta che la stessa procura palermitana si rende conto che, caduta l’accusa nei confronti dell’ex-comandante del Ros (nella tesi dei pm braccio operativo di quella trattativa, oggi più che mai presunta se non addirittura pretesa), è difficile tenere in piedi quelle contestate allo stesso Mori, ad altri due ex-ufficiali dei Carabinieri, all’ex senatore Marcello Dell’Utri e all’ex-ministro dell’Interno Nicola Mancino (imputato solo per falsa testimonianza) nel processo "Stato-mafia" che li vede alla sbarra con i boss Riina, Cinà, Bagarella, Giovanni Brusca (l’esecutore materiale della strage di Capaci) e a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, "pentito" arrestato per aver falsificato alcune carte che avrebbero dovuto provare le sue affermazioni.Il capo della procura Francesco Messineo non dispera, aggrappandosi alla formula («Il fatto non costituisce reato») con la quale sono stati assolti Mori e Obinu: «Viene da pensare che i fatti da noi contestati non sono stati ritenuti infondati», ha commentato subito dopo la sentenza. Può essere utile ricordare che con la stessa formula Mori fu già assolto 7 anni fa con il "Capitano Ultimo" Sergio De Caprio: dopo aver arrestato il "capo dei capi" di Cosa nostra, Totò Riina, i due erano stati accusati di favoreggiamento per aver interrotto la vigilanza del covo del boss senza perquisirlo e senza avvertire la procura. «Il fatto non costituisce reato», sentenziò anche allora il tribunale. Se le parole hanno un senso, dovrebbe voler dire che gli accusati fecero il loro lavoro di investigatori senza violare la legge. È ciò che dovrebbe importare. Tutto il resto rischia di rientrare nel fin troppo vasto campionario delle dietrologie, che può andare bene al massimo per qualche giornalista troppo sensibile al fascino delle manette. Accertare e sanzionare la violazione della legge è invece il senso dell’amministrare la giustizia. Lo Stato – sia quando mette sotto accusa un suo cittadino sia quando si spinge a processare se stesso, come nei casi di cui parliamo – deve esigere prove inoppugnabili, non può farsi bastare ricostruzioni storiche, articoli di cronaca, <+corsivo>papelli<+tondo> di dubbia origine e per giunta taroccati.A maggior ragione quando la slavina mediatica delle accuse arriva a lambire perfino il presidente della Repubblica e, tragicamente, suoi degnissimi collaboratori o quando - guarda caso alla vigilia di delicati passaggi politico-istituzionali - investe personalità che, come nel caso di Nicola Mancino, hanno ricoperto alte cariche per anni, a giudizio di tanti con disciplina e onore. Il ragionamento ci riporta così alla misteriosa «refluenza» di cui si diceva: se significa tornare indietro rispetto a un certo modo di costruire le indagini, sia benvenuta in tutti i dizionari e nell’esercizio dell’azione penale.