Opinioni

Inchiesta. Beni comuni, ecco la via per tutelare i «diritti sociali» e l'ambiente

Paolo Viana martedì 15 gennaio 2019

La legislatura che ha certificato la vittoria del populismo potrebbe portare alla 'costituzionalizzazione' del benicomunismo, l’unico movimento ad aver (stra)vinto una consultazione prima di Grillo e Salvini. Come benicomunisti li conoscono solo gli addetti ai lavori, ma tutti ricordano il successo del referendum contro la privatizzazione dell’acqua in cui sfociò il primo tentativo di introdurre i beni comuni nel Codice civile, nel 2011. I promotori di quei comitati ora ripartono da dove iniziò la loro avventura giuridica, tra il 2003, quando Tremonti aprì il dossier delle privatizzazioni e, dovendo costruire un conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale, costituì un gruppo di studio al Ministero dell’economia e delle finanze, e il 2006, quando quel lavoro fu presentato ufficialmente all’Accademia Nazionale dei Lincei.

L'obiettivo è la difesa di 'quei beni che permettono l’esercizio dei diritti fondamentali nonché il libero sviluppo della persona e vanno governati nell’interesse delle generazioni future' come recita la definizione di beni Comuni della Commissione Rodotà, che fu creata l’anno dopo con gli esponenti di tutte le culture giuridiche dal Ministero della Giustizia. Quella Commissione lasciò un disegno di legge bipartisan mai discusso dal Parlamento (e da quella frustrazione nacque l’operazione referendaria). Il neonato Comitato di Difesa dei Beni Comuni Sociali e Sovrani lo scorso 18 dicembre ha presentato proprio quel ddl in Corte di Cassazione, allo scopo di avviare una raccolta di firme e portarlo in Aula come iniziativa popolare.

L'operazione, scattata dopo il crollo del ponte Morandi, sulla scia delle polemiche esplose sulle concessioni autostradali, non si limita però alla difesa di beni comuni come il territorio, i beni culturali, le acque, ma si estende anche ai beni pubblici che sono 'sociali' e 'sovrani' in quanto sono tutt’uno con la sovranità riconosciuta al popolo dalla Costituzione del 1948, che è sovrana e sociale. 'In Italia, la sovranità appare fin dal primo articolo ed appartiene al popolo, mentre la socialità informa di sé l’impianto della Costituzione economica, articolo 41 e seguenti – spiega il giurista Ugo Mattei, promotore dell’iniziativa –. I beni pubblici si distinguono dal punto di vista della loro funzione e non della loro ontologia: alcuni sono indispensabili per dare attuazione a qualsiasi impianto di sovranità, mentre altri sono indispensabili soltanto se lo Stato Sovrano vuole essere anche sociale. I primi sono i beni ad appartenenza pubblica necessaria (c.d. beni pubblici sovrani) mentre i secondi sono i cosiddetti beni pubblici sociali. Fra i primi ci sono le grandi infrastrutture stradali e ferroviarie, i porti, gli aeroporti, gli slot ecc ecc. Fra i secondi gli ospedali, le scuole, gli asili i ricoveri per anziani, le mense dei poveri, insomma tutte le cose che rendono materialmente realizzabile uno stato sociale'. Tanto per dire che tra beni sovrani e sovranismo non c’è alcuna parentela e che la concezione costituzionale dei benicomunisti resta ancorata alla partecipazione popolare come fonte di legittimazione.

Il riaffacciarsi dei giuristi benicomunisti nel dibattito pubblico (con la piattaforma www.benicomunisovrani.it) non è solo una curiosità per cultori del diritto: il ddl potreb- be catalizzare energie e consensi trasversali che vanno dai liberali delusi alla sinistra deflagrata, passando per l’ecologismo e il mondo cattolico. Il 30 novembre scorso, il presidente della Camera Roberto Fico ha partecipato al convegno con cui è stato rilanciato il progetto. Qualche giorno dopo è nato il Comitato, presieduto da Mattei, ex Vicepresidente della Commissione Rodotà, e composto da Alberto Lucarelli, Daniela di Sabato, Luca Nivarra e Mauro Renna, tutti giuristi e membri della Commissione; il 18 dicembre hanno presentato in Cassazione il disegno di legge di iniziativa popolare che delega il governo a modificare il codice civile in materia di beni pubblici, allo scopo di portare il Codice Civile del 1942 al passo con la Costituzione (1948) e dotarlo di strumenti capaci di tutelare le generazioni future. Ciò attraverso il riconoscimento legislativo dei beni comuni a partire dalle risorse naturali quali l’acqua, la terra, l’aria, i parchi, le foreste, nonché di quelli sociali, quali la ricerca, l’istruzione, la salute, il lavoro, 'già formalmente tutelati dalla Costituzione – riconoscono i promotori – ma aggrediti e impoveriti».

Il 19 gennaio si terrà la prima Assemblea pubblica del Comitato e partirà – ai primi di febbraio – la raccolta di firme da consegnare il primo agosto. In parallelo inizierà un progetto di 'ecoalfabetizzazione popolare' lanciando a tal fine la prima Società Cooperativa di Mutuo Soccorso Ecologico, una Spa cooperativa che intende dare una forma giuridica stabile alle lotte per la difesa dei beni comuni e introdurre nell’ordinamento italiano la prima infrastruttura basata sull’azionariato diffuso. Si offriranno un milione di azioni dal valore di un euro (ciascuno potrà acquistarne una sola) e la sottoscrizione viaggerà di pari passo con la raccolta delle firme per il ddl. A fine campagna, spiega il Comitato, i sottoscrittori, raccolti in assemblea, delibereranno la costituzione del nuovo soggetto e l’Italia avrà, primo paese al mondo, una infrastruttura per le battaglie di democrazia diretta e partecipazione. Il Comitato, appoggiato da Slow Food, Arci e altre associazioni, punta a organizzare attraverso i circoli Rodotà una 'coalizione sociale costituente', in cui, sottolineano i promotori, 'i temi portanti sono spesso quelli dell’enciclica Laudato si’ ed è per questo che vogliamo avviare una vera collaborazione con i cattolici'.

Le modifiche previste dal ddl – che agiscono sul titolo II del libro III del Codice civile onde creare un sistema di tutela rafforzata per i beni comuni, impedirne la cessione ai privati e favorirne la valorizzazione nell’interesse dei cittadini – non sono rivoluzionarie, bensì del tutto analoghe alle norme di garanzia che sono state recepite negli anni dalla legislazione ordinaria per bilanciare il diritto a godere della proprietà privata con i limiti imposti alla medesima dagli articoli 41 e seguenti della carta costituzionale. Secondo i promotori, i cambiamenti tecnologici ed economici susseguitisi dal 1942 ad oggi hanno reso obsoleta la parte del codice civile relativa ai beni pubblici: alcuni beni immateriali come lo spettro delle frequenze radiotelevisive, oppure alcuni beni finanziari, ma anche le risorse naturali sono addirittura assenti oppure consegnati a una disciplina meramente formale.

Per risolvere il problema, la Commissione Rodotà aveva pensato di capovolgere il percorso classico 'dai regimi ai beni', classificando i beni in base alle utilità prodotte e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della persona e di interessi pubblici essenziali. Questa scelta ha caratterizzato tutto il lavoro successivo, dalla definizione di bene alla classificazione, che ha condotto a prevedere la nuova categoria dei beni comuni, non rientranti nella specie dei beni pubblici perché a titolarità diffusa: come il paesaggio e i beni culturali, essi possono appartenere infatti sia a persone pubbliche che a privati. Il ddl di iniziativa popolare formula una disciplina particolarmente garantistica per questi beni, che secondo sono informati – e questo è il vero punto dirimente – al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità. Ossia, il futuro della società viene prima del diritto di proprietà.