Opinioni

Banche, popolo e realismo. L’inevitabile salvataggio Carige

Marco Girardo mercoledì 9 gennaio 2019

A Genova il governo gialloverde sperimenta il quarto tipo d’incontro ravvicinato, ancora una volta con la realtà. Che si appalesa, nel caso del salvataggio Carige, vestendo i panni delle vituperate "banche" a cui non dare il becco di un quattrino perché rappresentano la quintessenza dei poteri forti, distinti e distanti, addirittura nemici nello storytelling populista dei cittadini. Era già successo con i perfidi mercati, l’arida Europa e con quel Reddito d’inclusione considerato totalmente inefficace, ma a conti fatti diventato parte integrante del costituendo Reddito di cittadinanza.

Ora il "salvataggio del popolo" prende atto che le banche – come i mercati, come l’Europa – "siamo noi". Sono cioè i dipendenti allo sportello e i depositi dei correntisti, le azioni e le obbligazioni detenute dai risparmiatori, sono i mutui alle famiglie e i prestiti alle imprese e quindi al sistema produttivo.

In un Paese bancocentrico come l’Italia, quando vengono amministrati correttamente, gli istituti di credito costituiscono quasi l’unico volano della crescita e non un nemico da ostacolare. E siccome funzionano da vasi comunicanti, la crisi di un istituto può compromettere l’intero sistema linfatico. Un conto sono pertanto le gestioni avventate, la commistioni clientelari e padronali, i raggiri ai risparmiatori – quasi un vizio, purtroppo, di una parte malata dell’organismo bancario italiano – per le quali devono intervenire la autorità di vigilanza in sede preventiva e, qualora non fosse sufficiente, la magistratura e i Tribunali, come è già successo in effetti alle banche venete o alla stessa Carige, il cui ex presidente, Giovanni Berneschi, è stato condannato in appello a 8 anni e 7 mesi per la truffa sul ramo assicurativo. Altra cosa è la 'realtà' del credito, bene comune di un’economia.

Ha legiferato dunque correttamente e con tempestività l’esecutivo approvando in un Cdm lampo – sono bastati 8 minuti mentre il Pd, per il 'Salva-banche', ne aveva impiegati secondo l’allora scandalizzato Alessandro Di Battista «appena 18» – a varare le 'Disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio'.

La stessa dicitura, guarda caso, utilizzata dal governo Gentiloni allorché intervenne il 23 dicembre 2016 su Mps. «Tutela del risparmio» è definizione certo più appropriata. Ma la similitudine non è solo semantica. Lo schema per salvare Carige prevede infatti, come per il Montepaschi, garanzie dello Stato fino a 3 miliardi sull’emissione di bond al fine di preservare la liquidità dell’istituto. E nel caso si dovesse procedere a una ricapitalizzazione precauzionale e salvaguardare così correntisti, obbligazionisti e azionisti, si potrebbe utilizzare parte delle risorse accantonate nei precedenti salvataggi per un esborso che gli analisti quantificano in 1,2 miliardi.

Il governo gialloverde è dunque ben consapevole che il fallimento di una banca ha un costo sociale enorme. Ed è intervenuto per evitarlo, come è già stato fatto nel resto d’Europa (la Germania ha speso 238 miliardi, la Spagna 52 e oltre 40 l’Irlanda). I nostri governi precedenti hanno destinato negli ultimi tre anni agli istituti di credito in difficoltà risorse pubbliche per 30 miliardi. Eppure mezza campagna elettorale di M5s e in parte della Lega era stata costruita proprio sulla retorica della sciagura per i poveri italiani provocata dal 'salva-banche', nome del primo decreto per evitare il crac di Banca Etruria, Banca Marche, le Casse di Ferrara e Chieti, risalente al novembre 2015 e firmato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Una Legge divenuta nell’agone politico eponima per tutti gli interventi successivi, da Mps alle Venete. Del resto il meccanismo proiettivo del capro espiatorio – il nemico possono essere di volta in volta le banche, l’Europa, gli immigrati o addirittura il Non profit – è altamente remunerativo per racimolare voti e consenso. Ma è totalmente inefficace quando ci si confronta con la realtà e bisogna governare. Costruire ponti e non muri. Comporre gli interessi di tutti gli 'stakeholder', dove il 'noi' e il loro' sono esattamente interscambiabili, coincidendo con il popolo da servire, non da blandire, e quando occorre – è il caso delle banche – pure da salvare.