Opinioni

L’orrore di Boko Haram in Nigeria. Bambine kamikaze cultura di morte

Fulvio Scaglione martedì 13 gennaio 2015
Nel tempo, abbiamo purtroppo fatto una certa abitudine alla strage di bambini in Africa. Bambini soldato mandati a massacrare e farsi massacrare, dall’Uganda all’Etiopia, dal Congo alla Liberia, dalla Sierra Leone al Sudan. Bambini decimati dalle carestie, a volte scientemente provocate o sfruttate a fini politici, come l’ultima in Corno d’Africa da parte degli shabaab della Somalia. Nessuno, però, era ancora arrivato al livello della perfidia elevata a filosofia di morte come Boko Haram, la setta islamista nata all’inizio degli anni Duemila nel Nord della Nigeria, al confine con Niger e Ciad. Boko Haram in lingua hausa (quella di un popolo di circa 30 milioni di persone sparso appunto tra Niger e Nigeria) significa «l’educazione occidentale è peccato», slogan che in questo caso è un concreto programma di azione. La setta, infatti, cominciò a operare nella città di Maiduguri costruendo una moschea dove predicava Ustaz Mohammed Yusuf, il fondatore del gruppo morto nel 2009 mentre tentava di evadere di prigione, e una scuola di stampo rigorosamente islamico per accogliere e istruire i figli delle famiglie povere.Con le loro incursioni, però, i miliziani di Boko Haram hanno mostrato in modo assai chiaro cosa intendano per istruzione ed educazione. Prima hanno cominciato a colpire le scuole, soprattutto quelle cristiane, minate con le bombe o attaccate con i kamikaze. L’ultima strage di una lunga serie è del settembre scorso, almeno cinquanta studenti falciati in un istituto agrario nello Stato di Yobe. Poi hanno rapito le studentesse, per farle schiave, convertirle a forza o sfruttarle per il riscatto: 219 ragazze sequestrate nell’aprile scorso a Chibok, portate nelle foreste al confine con il Niger, vendute come bestie, maritate a forza, alcune liberate, altre scampate in modo quasi miracoloso. Infine, e siamo alla cronaca di questi giorni, hanno cominciato a usare le bambine come bombe umane, caricandole di esplosivo e facendole saltare a distanza nei mercati, tra la gente. È la stessa ideologia dei taleban che in Pakistan spararono a Malala, la ragazza premio Nobel per la pace nel 2014, perché voleva andare a scuola. Ma, se possibile, resa ancora più nera e disperata. Colpendo Malala, infatti, infatti, i taleban volevano spaventare le famiglie, costringerle a tenere le figlie in casa, nell’ottica di un modello di vita oscurantista e fanatico. I miliziani di Boko Haram vanno oltre: scegliendo di sacrificare le future donne e di tramutarle in ordigni di morte, negano il principio stesso per cui esiste l’istruzione, qualunque istruzione, anche quella islamica. Istruirsi, infatti, vuol dire prepararsi alla vita, dotarsi degli strumenti più adatti a valorizzare le proprie potenzialità. Serve a passare da progetto a realtà, da ragazzo appunto a uomo o donna. Ma quella di Boko Haram è una cultura non di vita ma di morte: perché uccide vite già fiorite, certo, ma anche perché uccide vite che devono ancora sbocciare. Le bambine possono essere sacrificate, gli uomini devono fare i padroni, tutto deve restare congelato in una dimensione in cui le relazioni conoscono i soli modi del comando e della violenza.La setta, come ormai sappiamo, punta a costituire tra Nigeria e Niger una replica dello pseudo-califfato sorto tra Iraq e Siria; approfitta delle enormi disuguaglianze sociali della Nigeria, dove l’1% della popolazione gode del 75% della ricchezza nazionale; vuole di certo mettere le mani sui proventi del petrolio. Ma quella sua mortifera visione del mondo è destinata quasi per natura a scontrarsi con quella cristiana, nel Paese rappresentata da oltre il 48% della popolazione, che è invece un’idea di vita e libertà. Anche #bringbackourgirls, lo slogan usato dopo il rapimento delle studentesse, deve quindi diventare un "marchio" sulla nostra consapevolezza.