Opinioni

La forza del perdono. Bachelet: quel segno vincente di pace

Lucia Bellaspiga sabato 20 febbraio 2010
Era la fine del 1983 quando padre Adolfo Bachelet, anziano gesuita, ricevette una lettera firmata da diciotto esponenti delle Brigate Rosse. Uomini e donne che avevano ucciso senza pietà, che si erano macchiati dei più disumani crimini, chiedevano umilmente a quel vecchio di andarli a trovare in carcere: «Vogliamo ascoltare le sue parole». Quattro anni prima altre parole erano risuonate in una chiesa romana, e quella volta a pronunciarle era stato un giovane di 24 anni, Giovanni Bachelet, nipote del gesuita. Era il giorno in cui si seppelliva suo padre Vittorio, docente di Diritto alla Sapienza di Roma e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, assassinato dalle Br sulle scale della sua facoltà il 12 febbraio 1980: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà – disse Giovanni dall’altare – perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Una lezione che aveva appreso dal padre, dal suo agire più che dal suo parlare, e che quel giorno scosse molte coscienze, suscitando emozione ma anche dando scandalo. Perché l’abisso del bene a volte spaventa più dell’abisso del male.Ciò che nessuno poteva conoscere era il lavorìo lento ma ineluttabile che intanto quella parola, «perdono», compiva nel sottomondo delle carceri, insinuandosi come una lama di luce nell’oscuro della coscienza di chi scontava i suoi delitti in cella. «Ricordiamo bene le parole di suo nipote durante i funerali del padre», scrivono, anni dopo, i diciotto brigatisti al gesuita, e riconoscono che quello fu il momento in cui persero la loro guerra, «davvero sconfitti nel modo più fermo e irrevocabile». Ad annientarli non era stata la risposta necessaria della giustizia, non la detenzione, ma «l’urto tra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di pace». Errare è umano – scriveva nel Settecento Alexander Pope – perdonare divino, e quel manipolo di ex assassini (che probabilmente non lo avevano letto) rompeva le righe come un esercito in rotta, colpito in pieno volto dall’offerta di pace: «Ci inchiniamo davanti al fatto puro e semplice che la testimonianza d’umanità più larga e vera e generosa sia giunta a noi da chi vive in spirito di carità cristiana», ammettono nella lettera.Chi perdona disarma perché disarmato si consegna, unilateralmente. E un uomo come Vittorio Bachelet, che il Diritto lo insegnava ma prima ancora lo viveva, da sempre convinto che un mondo migliore o peggiore dipenda da ciascuno di noi, continuava a dare il suo contributo di pace attraverso le parole del figlio che aveva cresciuto. Martire laico, lo definì il cardinal Martini, e martire, "testimone", continua ad essere oggi, a trent’anni dalla morte, esempio di mitezza ma anche di lucidità di giudizio, maestro di giustizia ma anche di perdono. Un martirio accolto e condiviso da chi lo aveva amato: «La testimonianza che a noi tutti diede la sua famiglia ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della lotta armata», scrisse alla moglie, qualche anno dopo, un brigatista. E l’antidoto alla violenza fu dirompente: «Le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi».È una storia che andrebbe raccontata tutti i giorni, di generazione in generazione, come avviene presso i popoli nei quali i giovani ancora apprendono dall’esempio dei padri. "Par condicio" e burocrazia hanno oscurato la messa in onda della puntata che "A sua immagine" avrebbe dedicato sabato scorso al martirio di Vittorio Bachelet, nell’anniversario della sua morte, ma alla fine il buon senso ha prevalso e la vedremo oggi. E alla fine è meglio così: oggi, 20 febbraio, Bachelet non moriva, nasceva. Avrebbe compiuto 84 anni.