Opinioni

Perché tornano le imprese delocalizzate. Aziende, il retroterra che ci fa unici

Paolo Preti mercoledì 15 luglio 2015
Si legge reshoring ma va inteso «ci siamo sbagliati, siamo stati precipitosi». Con questo termine si identifica l’azione di quelle aziende, non solo italiane, che dopo avere delocalizzato la produzione a cavallo del cambio di millennio in Paesi più o meno lontani hanno deciso di riportare quelle attività entro i confini nazionali. Dopo gli anni in cui era di moda andarsene in cerca non di nuovi mercati da conquistare, ma di costi di produzione più bassi per tentare in questo modo di essere più competitivi presso i clienti tradizionali, molte imprese, non solo nostrane, hanno capito che è meglio invertire la strategia: non vecchi clienti da mantenere con lo sconto realizzato producendo in nuovi Paesi, ma nuovi clienti da conquistare con prodotti continuamente migliorati qualitativamente, per immagine e per i servizi ad essi collegati. E poiché nulla di tutto ciò è facilmente ottenibile nelle nazioni della delocalizzazione, dove al contrario è perseguibile solo un costo unitario largamente inferiore per beni standard e di media-bassa qualità, ecco il rientro in patria, un po’ alla chetichella in verità, e la rivalutazione conseguente della nostra diffusa capacità manifatturiera.C’è un altro fenomeno che, sia pure di minore portata quantitativa, ha tenuto banco sui media nello stesso periodo e che può essere assimilato al primo. Spesso ci è capitato di ascoltare, nelle mille trasmissioni televisive in cui la protesta è comprensibilmente di casa al contrario della proposta, la minaccia di tanti imprenditori lombardi, friulani e veneti di andare ad operare oltre confine nelle più ospitali Svizzera e Austria per abbattere i costi burocratici e ottenere immediati tornaconti in servizi e facilitazioni. Bene, con colpevole disattenzione se non malcelato interesse, nessun media si è poi interessato a capire che fine facessero quelle lamentele, quanti imprenditori a distanza di mesi effettivamente trasferissero la propria sede in quei ridenti Paesi. Peccato, avrebbero scoperto che solo una piccolissima percentuale, intorno al dieci per cento, passava dalle parole ai fatti: una cosa è manifestare disagio in favore di telecamera, ben altra chiudere baracca e burattini e trasferirsi, anche a vivere, oltre frontiera. Ma c’è un terzo fenomeno interessante da questo punto di vista. Nel dibattito economico ogni tanto ci si infervora nel difendere il made in Italy dalle incursioni di capitali stranieri a caccia di aziende nostrane: anche i più accaniti nostri difensori quasi sempre dimenticano tuttavia di sottolineare, oltre alla non riconosciuta abilità delle nostre imprese nell’acquistare aziende estere, la prassi di lasciare le aziende neo-acquisite da capitali esteri là dove hanno sempre operato, perché è là che risiedono quelle competenze che permettono di realizzare i prodotti per cui le aziende sono appetibili. C’è poco da discutere, il nostro Paese ha una tradizione e un retroterra assolutamente originale e, dunque, difficilmente sostituibile se non per strategie dal respiro cortissimo o mode destinate a una assai rapida obsolescenza. Altrove non si può trovare quello che qui, tra mille problemi, è esperienza consolidata e diffusa, sia in termini imprenditoriali che operativi. Chi ragiona esclusivamente di costi e burocrazia vive di standard, di ripetitività e di economie di scala, noi dobbiamo e possiamo competere soprattutto di qualità, servizio e innovazione. Anche per questo mi sento di poter dire che Expo sarà un grande successo, pur se con qualche problema organizzativo. Siamo fatti così: sperare di migliorare è lecito, impegnarsi doveroso, crederci opinabile.