Opinioni

Un anno dopo la morte di Alfie. L’eutanasia non è mai la soluzione

Francesco Ognibene domenica 28 aprile 2019

Un anno dopo la morte di Alfie, le pulsioni per sbarrare il passo alla vita Un anno dopo, fa ancora più male. Tornare agli ultimi giorni di Alfie Evans, morto un anno fa, provoca l’impulso a non pensarci più, tanto furono convulse e crudeli quelle ultime ore, un tira e molla insensato tra medici, giudici, polizia, e due genitori ragazzini, apparsi troppo fragili davanti all’inesorabile macchina che si era avviata per portare a morte il figlio «nel suo migliore interesse».

Eppure proprio dentro i momenti più critici Tom e Kate divennero autentici eroi civili di una resistenza all’ottusità della burocrazia sanitaria e legale, mentre noi sentivamo montare il senso di un’impotente ribellione contro un’ingiustizia patente ma inarrestabile. Rinnovare oggi quel dolore è urtante ma necessario.

Spicca, su tutto, la consapevolezza che anche quando la medicina deve riconoscere il suo limite non viene meno una speranza invincibile, che non pretende soluzioni o motivi per illudersi ma fa parlare la nostra umanità. Dice che siamo fatti per la vita, e che anche la malattia letale non ha l’ultima parola se attorno a chi soffre resta salda la catena delle mani che non lasciano nessuno solo e senza luce, mai, neppure davanti alla più amara delle evidenze. Tom e Kate sapevano che il loro Alfie era destinato a una fine prematura, non chiedevano accanimenti o miracoli clinici, ma questa lucida coscienza non ha spento in loro la domanda sul senso di quella sofferenza apparentemente inutile, che poteva essere restituito da un accompagnamento umano alla morte quale quello che avrebbe ricevuto al Bambino Gesù di Roma.

Il letto per Alfie all’ospedale pediatrico era già pronto, lo stesso che ha accolto Alex, il bambino che sei mesi fa i medici londinesi davano per spacciato ma che ora è guarito: perché la scienza cammina sulle inestinguibili speranze degli uomini, e nessuna sentenza, legge, ideologia iperlibertaria riuscirà a spegnerla pur provandoci con tutto l’apparato argomentativo ormai ben noto, un misto di arroganza liquidatoria ('non imponeteci le vostre fissazioni vitaliste'), ipocrisia umanitaria ('infliggere sofferenza è disumano') e cinica indifferenza ('se vuole morire, perché impedirglielo?').

È a questa incancellabile impronta umana che parlamenti e università, intellettuali, scienziati, giuristi e media dovrebbero dare ascolto prima di perdere, con la vita di chi è indotto a togliere il disturbo perché considerato di troppo, anche la stessa spinta che muove l’umanità, che la rende ancora (ma sempre meno) feconda. Perché in gioco c’è assai più di un caso giudiziario, come quello che sta conducendo alla morte Vincent Lambert, paziente francese del quale un tribunale ha appena ingiunto il distacco dei supporti vitali.

Come non scorgere nella mentalità che ha preteso di spegnere anzitempo la vita di Alfie la stessa, efferata logica che vede nel migrante un cencioso fastidio e non una persona umana come me, un errore nell’algoritmo del proprio piccolo mondo e non una novità che porta la sua storia dentro la nostra per aggiornarla, come in ogni epoca, per ogni popolo. Certo, bisogna essere preparati ad accogliere la vita difettosa, anziana, disabile, lontana per radici e cultura, religione, lingua, storia. Ma ciò a cui ci preparano i cantori dell’autodeterminazione senza limiti e dell’autosufficienza senza memoria – inconsapevoli alleati, pur parlando lingue ideologiche diverse – è l’esatto opposto.

E noi che non vogliamo un mondo che accetta l’eutanasia o la 'morte medicalmente assistita' (Orwell sarebbe orgoglioso di questo esempio di neolingua) così come i respingimenti indiscriminati, quasi fossero entrambi inevitabili, dobbiamo quantomeno saperlo. Ecco perché a distanza di un anno dalla tragica morte di Alfie a sembrare inaudita è soprattutto l’ostinazione di chi non volle riconoscere una chance a un bimbo che mostrò tutta la sua forza vitale con la resistenza all’interruzione del supporto medico, durata giorni interi. Dentro quel piccolo corpo segnato da una condizione che lo vedeva partire svantaggiato c’era come un messaggio in bottiglia per noi, così spesso rassegnati al peggio, o paghi di una declamazione di princìpi vaga, o vanamente aggressiva: ogni vita è un dono di gioia, un mistero da svelare, una voce che bisogna saper ascoltare, e non rigettare o lasciar spegnere perché non siamo più in grado di intenderla.