Opinioni

Calcio. Juventus e scudetti: l'ultimo giapponese dice 32

Alberto Caprotti mercoledì 7 maggio 2014
L'infinito minestrone che in questi giorni gira intorno al calcio non ci risparmia le dichiarazioni di nessuno. Violenza, ultrà, tolleranza zero, Daspo: solo di questo si parla. Tanto. Spesso anche a sproposito. Tutti lo fanno. Tranne uno. Incrollabile, come l’ultimo dei soldati giapponesi, Andrea Agnelli ha altri temi per la testa. E, momentaneamente almeno, solo un numero (il 32) e un vocabolo (lo scudetto), da offrire alle platee tifose.La ragione è abbastanza nota. La contabilità ufficiale del campionato certifica che gli scudetti vinti dalla Juventus sono 30, ma per il nobile nipote dell’Avvocato, e per gran parte del popolo bianconero, sono due in più: «Per questo non metteremo sulle maglie la terza stella, che comparirà soltanto quando le altre squadre metteranno la seconda», ha ribadito in questi giorni. Anche per segnare la distanza tra sé e il resto del mondo pallonaro.Ora, che per il presidente della Juventus l’aritmetica sia diversa da quella della Federcalcio, può non essere un gran problema. Anzi, ha senz’altro ragione Agnelli se in cuor suo ritiene ingiusta la sentenza di Calciopoli che ha cancellato alla sua società due titoli vinti sul campo. L’unica cosa non comprensibile, al di là di patacche sulle maglie che contano solo per la coreografia, è il motivo per cui Agnelli continui a partecipare – stravincendolo pure – al campionato italiano e non, ad esempio, a quello lappone. Dove probabilmente vigono usanze e regole diverse.Convivenza civile e logica indicano che se fai parte di un’associazione ne devi rispettare le decisioni e le sentenze, posto che né le regole né tantomeno le sentenze siano sempre condivisibili.Così invece il suddetto minestrone pallonaro odierno comprende in menù chi giustamente si indigna per la maglietta di “Gennaro a’ carogna” che chiede la libertà per Speziale, il giovane che una sentenza penale ha condannato per l’omicidio dell’ispettore Raciti. Ma non obietta affatto se il presidente del primo club italiano inneggia, sulle sue maglie e in ogni manifesto ufficiale, al disconoscimento di una sentenza definitiva di un tribunale sportivo. Non è la stessa cosa, certo. Ma il principio non è tanto diverso. E diseducativo e spiazzante resta, specie in un momento come questo. Anche perché, questioni di forma a parte, ci si riferisce a fatti e situazioni ormai antiche. Sulle quali voltare finalmente pagina farebbe bene a tutti. Anche all’ultimo dei soldati giapponesi.