Opinioni

L'analisi. E se l'escalation in Iraq portasse a un accordo?

Fabio Carminati giovedì 2 gennaio 2020

Un accordo si raggiunge quando le due parti sono ormai consapevoli di non poter prevalere una sull’altra o quando il vantaggio per entrambi è palese. Per Stati Uniti e Iran valgono entrambi i presupposti.

Non vanno sottovalutate le accelerazioni di queste ore, le minacce reciproche e i gesti clamorosi del surriscaldamento delle piazze. Per molti analisti, però, questo fa solo parte della “strategia Trump”. Ossia quella che fin dal suo arrivo alla Casa Bianca sta imponendo ai suoi segretari di Stato e ambasciatori e che cambia con una frequenza a dir poco imbarazzante.

La stessa che ha portato all’intesa (tutta di facciata, viste le continue violazioni da parte di Pyongyang), con quello che prima chiamava «razzetto» e poi «grande amico»: Kim Jong-un.

Non più tardi di tre settimane fa, il presidente iraniano Hassan Rohani – al culmine di minacce crescenti da parte degli Usa e dell’allontanamento da parte dei Paesi europei determinanti nell’accordo nucleare, primo fra tutti la Germania – aveva rivelato di continue richieste «segrete» di dialogo con Teheran da parte della Casa Bianca.

Trump ha bisogno di un grande successo (o di farlo ritenere tale) in politica estera. E l’intesa con Teheran è quella più a portata di mano, naufragato miseramente il grande piano di pace tra palestinesi e israeliani.

L’Iran è a sua volta all’angolo: per le sanzioni, come ha ricordato ieri lo stesso Rohani «costate 200 miliardi di dollari» in soli tre anni, e per il fatto di non sembrare più in grado di gestire contemporaneamente tre crisi internazionali. Il riferimento è alle rivolte anti-sciite in Iraq, represse nel sangue, ma pronte a riesplodere perché eteroguidate; al riposizionamento sempre più marginale in Siria e alla crisi che l’alleato Hezbollah sta attraversando in Libano.

Se si aggiungono poi i più miti consigli ai quali Teheran sembra essere arrivata nello Yemen nei confronti del nemico storico saudita, il quadro delle difficoltà della politica estera iraniana è tracciato. Politica estera, non va mai dimenticato, che non gestisce Rohani ma la Guida suprema Ali Khamenei, che il «male minore» l’ha sempre saputo identificare con abilità.

Sull’altro fronte Trump, sotto impeachment e all’esordio di una lunga campagna elettorale asfissiante e pesante. È vero che nessun presidente americano è stato eletto (o rieletto) per i successi in politica estera. Ma è altrettanto vero che lo sfruttamento da parte di Trump, con l’immediatezza dei social e la sovraesposizione mediatica, non ha eguali nei suoi predecessori. Per questo, e per tanti, la frase di Donald Trump («non vedo la possibilità che accada», rispondendo a chi chiedeva di una possibile guerra contro la Repubblica islamica), è forse la più veritiera delle ultime settimane.

Lo scontro in Iraq