Opinioni

I cattolici e l'ecumenismo del sangue. Amore per i martiri e dialogo contro l'odio

Camille Eid giovedì 27 dicembre 2018

La beatificazione dei martiri algerini conferma una lodevole 'riscoperta' dei cristiani uccisi in odium fidei nei Paesi a maggioranza islamica, e non solo in epoca contemporanea. Fino a pochi anni fa, l’Europa laica arrossiva, si stupiva o si irritava se qualcuno osava mettere in discussione la vulgata che parlava di un continente dilaniato in secolari guerre di religione, mentre in terra d’islam vigeva la benevola protezione dei 'dhimmi' ebrei e cristiani, ignorando spesso il fatto che questi 'dhimmi' fossero all’origine maggioranze schiaccianti, progressivamente erose dai conquistatori arabomusulmani. Molti finirono per credere che, tra le antiche persecuzioni romane e quelle contemporanee comuniste, le esperienze di martirio fossero quasi unicamente dovute alle lotte tra fratelli di fede cristiana. Di quella vulgata ho avuto conferma durante una visita alla Cattedrale di Cordoba, dove sono intagliate ai lati del coro le figure di 46 mozarabi fatti uccidere dal califfo Abdul-Rahman II nel IX secolo, ma che il professore di arte si ostinava a presentare alla scolaresca come «martiri romani».

Un nuovo approccio ha avuto inizio con la beatificazione, il 27 aprile 2003, di Marco d’Aviano, il cappuccino che nel 1683 contribuì a salvare Vienna, e con essa tutta l’Europa, dalla minaccia delle armate ottomane. Dieci anni dopo, il 12 maggio 2013, ci fu la canonizzazione di Antonio Primaldo e dei suoi 812 compagni, martirizzati dai Turchi a Otranto nel 1480. Poi ancora, il 12 ottobre 2014, la beatificazione a Sassari di Francesco Zirano, dei frati minori conventuali, martirizzato nel 1603 ad Algeri dove si era recato per riscattare gli schiavi cristiani. Infine, il 29 agosto 2015, data che coincideva con il primo centenario del suo martirio, la beatificazione del vescovo siro-cattolico Flaviano Michele Melki, ucciso durante il genocidio ottomano contro armeni, siriaci e assiri. L’interesse alla causa dei cristiani uccisi in terra islamica è in parte dovuto alla crescita delle persecuzioni anti-cristiane messe in atto dai vari gruppi jihadisti, dalla Siria e all’Iraq, dal Pakistan alla Nigeria. Ma è cresciuta contemporaneamente la coscienza inter-cristiana verso quello che viene ormai definito, con un’espressione cara a papa Francesco, l’«ecumenismo del sangue». Nel febbraio 2015, non appena appresa la notizia del barbaro sgozzamento di 21 operai copti sulla costa libica per mano del Daesh, il Papa compì un gesto senza precedenti: commemorare in un’eucaristia cattolica i cristiani di un’altra confessione. «Offriamo questa Messa – disse Francesco – per i nostri 21 fratelli copti, sgozzati per il solo motivo di essere cristiani. Preghiamo per loro, che il Signore come martiri li accolga». Un gesto, questo, salutato dalla Chiesa copta che ha già iscritto nel suo Sinassario quei semplici lavoratori migranti che hanno invocato – come si vede nel video girato dagli stessi terroristi – il nome di Cristo nel momento in cui venivano trucidati.

La celebrazione della memoria di questi martiri è sempre andata di pari passo con il dialogo con l’islam. Questo spiega la partecipazione di imam e di semplici musulmani a tutte le cerimonie di beatificazione avvenute. Un motivo di stupore da parte islamica è il fatto che molti di questi nuovi beati hanno deciso, nonostante i gravi rischi che sapevano di correre, di perseverare nella loro missione mostrando un radicale attaccamento alle terre in cui erano nati o avevano scelto come patria d’elezione. Pensiamo ai monaci di Tibherine, ma anche al venerabile Shahbaz Bhatti, ucciso da radicali pachistani il 2 marzo 2011, che aveva confessato: «So che mi uccideranno, ma io offro la vita per Cristo e per il dialogo interreligioso». Pensiamo anche ai giovani beatificandi padre Ragheed Ganni e i suoi tre suddiaconi, trucidati il 3 giugno 2007 a Mosul. Nonostante la proposta dei suoi superiori di fare il parroco in Irlanda, il neosacerdote aveva preferito tornare nel suo Iraq. «Quello è il posto cui appartengo, quello è il mio posto», aveva detto. Durante il breve colloquio avuto con loro lo scorso agosto, papa Francesco ha abbracciato ed elogiato i familiari di padre Ragheed che hanno scelto «il perdono e la riconciliazione, piuttosto che l’odio e il rancore ». Essi hanno visto, ha aggiunto il Papa, «che il male si può contrastare solo col bene e l’odio superare solo col perdono. In modo quasi incredibile, sono stati capaci di trovare pace nell’amore di Cristo, un amore che fa nuove tutte le cose».