Opinioni

La crisi libica e il ruolo della superpotenza. America, l'«obbligo» di agitare le armi

Vittorio E. Parsi domenica 13 marzo 2011
La perdita di influenza degli Stati Uniti nel Mediterraneo (di cui fortunatamente nessun rivale strategico o regionale è ancora riuscito ad approfittare) è impressionante. Essa è resa paradossalmente evidente dal fatto che un presidente come Obama, della cui sincera preferenza per gli argomenti della persuasione rispetto a quelli della forza non abbiamo ragione di dubitare, si ritrova costretto contemplare tutta la vanità (nella sua duplice accezione) del soft power americano nell’area, e non riesce a fare molto di più che minacciare di ricorrere a una qualche forma di intervento militare per tentare di bloccare Gheddafi. Ovviamente il capo dello Casa Bianca sa bene quanto siano rischiose e vincolate le iniziative militari: tanto più in terre islamiche, dopo l’11 settembre e con due teatri operativi (Afghanistan e Iraq) ancora aperti. E possiamo immaginare la sua espressione sconsolata nel contemplare che, dopotutto e nonostante il suo elevatissimo costo politico, lo strumento militare resta il solo nella piena disponibilità del presidente e il solo in cui gli Stati Uniti ancora non temano rivali. Come abbiamo sostenuto più volte, mille ragioni sconsigliano un passo simile, e però il dilemma presidenziale è profondo, perché gli avvenimenti in corso nel Mediterraneo potrebbero ridisegnare non solo il quadro regionale, ma l’intero assetto strategico globale e segnare un rapido declino strutturale e permanente degli Stati Uniti come superpotenza globale. Gli Stati Uniti giustificano agli occhi del mondo la propria posizione di global superpower per la funzione di garante dell’ordine e della sicurezza in due aree: il Medio Oriente allargato e l’Estremo Oriente. Il Medio Oriente è un’area tradizionalmente turbolenta, ma dalla quale finora non sono emersi mai credibili sfidanti anche solo in grado di imporre la propria leadership regionale. Neppure l’Iran, che pure in questi anni ha ottenuto molti vantaggi tattici, migliorando le proprie posizioni in Libano, a Gaza, in Iraq, in Afghanistan e più complessivamente nel Golfo, può seriamente essere presentato come un potenziale egemone: almeno finché Israele mantiene la sua supremazia militare e fino a quando non dovesse collassare completamente l’intero sistema regionale, a partire da Egitto e Arabia Saudita, cosa che è ancora di là da venire. L’Estremo Oriente è un’area tradizionalmente più stabile, per lo meno a partire dalla fine della guerra del Vietnam, quando l’abilità di Nixon e Kissinger riuscì a trasformare una traumatica sconfitta militare in un successo diplomatico, traghettando compiutamente la Cina di Mao nel fronte antisovietico a guida americana. Ma è nel Far East che dall’inizio del Novecento sono continuativamente presenti grandi potenze regionali e bicontinentali (il Giappone, la Russia) e soprattutto è nel Far East che sta sorgendo quello che è ritenuto da molti il possibile futuro sfidante globale degli Stati Uniti: la Cina. Senza più la capacità di essere decisivi in questi due teatri (al netto dei danni economici immaginabili), gli Usa si vedrebbero scalati allo status di una grande potenza bicontinentale (atlantica): fortissima sul piano nucleare (come la Russia), ma dal peso politico ed economico calante (rispetto a una Cina ancora molto più indietro, ma dal trend in forte continua ascesa). Se la perdita di influenza che gli Usa stanno sperimentando in questi mesi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente dovesse risultare stabile, quindi, agli Stati Uniti resterà solo il delicato e competitivo teatro dell’Asia Orientale per continuare ad affermare il proprio ruolo, cioè un teatro caratterizzato da un affollamento di potenze (medie, grandi e magari globali). È facile capire quali potrebbero essere le conseguenze negative di una perdita di centralità strategica dell’America sul ruolo del dollaro: un asset che oggi è più cruciale che mai per la gestione dei deficit (finanziario, commerciale e federale) e per la possibilità di “socializzarne” internazionalmente il costo alimentando un po’ di inflazione, e così scaricando anche sul resto del mondo il costo delle proprie politiche di sostegno a economia e occupazione. Ecco perché Obama, pur non amandola affatto e conscio dei rischi che comporterebbe, non può affatto premettersi di scartare l’ipotesi di un intervento militare capace di riaffermare il ruolo e lo status degli Stati Uniti nel Medio Oriente allargato.