Opinioni

Gli armeni vittime della “realpolitik”. Altro Esodo nel silenzio

Fulvio Scaglione venerdì 29 settembre 2023

Al momento in cui scriviamo queste righe, il governo dell’Armenia ha già registrato circa 75mila profughi in fuga dal Nagorno-Karabakh che solo dieci giorni fa l’Azerbaigian ha riportato sotto il proprio controllo. Un ribaltamento violento, realizzato con le armi ma preparato accanendosi per nove mesi contro i civili: per tanto tempo, infatti, gli azeri hanno bloccato il Corridoio di Lachin, l’unica via che collegava il Nagorno all’Armenia, l’unica arteria che consentiva al piccolo popolo della Repubblica separatista dell’Artsakh di ricevere i beni essenziali alla sopravvivenza.

Ora la gente armena sceglie l’esodo, trenta ore di viaggio per raggiungere un porto sicuro, lasciando dietro di sé le case, le botteghe, i beni raccolti in una vita che da quelle parti non è mai stata facile, anzi spesso pericolosa. Sarà un esodo totale (nella regione vivevano circa 120mila armeni), come le cifre giorno per giorno dimostrano e come era stato facile prevedere: l’Azerbaigian offriva un “reinserimento” sociale non ben definito, una teorica e frettolosa riconciliazione di fatto impossibile tra entità che si sono combattute con ferocia per decenni. Le autorità dell’Artsakh sanno che non resterà nessuno e infatti hanno preso la decisione più malinconica e definitiva: la Repubblica si scioglie, decide di cessare di esistere, dal 1° gennaio del 2024, prima che altri lo decidano per lei.

Come si è detto e scritto, il diritto internazionale stabilisce che il Nagorno-Karabakh è territorio azero. Lo decisero i diversi patti firmati all’epoca della fine dell’Urss tra i leader dei nuovi Stati indipendenti, lo confermarono i trattati siglati a livello internazionale in quegli stessi anni, lo ratificò la risoluzione numero 822 dell’Onu nel 2008. Ma una rivendicazione così brutale di un diritto, come quella attuata dagli azeri, viola tutte le norme che la partecipazione alle Nazioni Unite imporrebbe di rispettare, a cominciare dal divieto a ricorrere alla forza militare per risolvere le divergenze tra nazioni. E allora perché la cosiddetta “comunità internazionale” assiste agli eventi con tanta calma, per non dire indifferenza? Le ragioni affondano nei più classici meccanismi della realpolitik, che non sono nuovi ma sono ancor più stringenti nella crisi globale innescata dalla guerra in Ucraina.

La Russia è sempre stata il principale sponsor dell’Armenia, e quindi anche del Nagorno-Karabakh armeno. Per molti anni Mosca si è opposta alle pretese azere, anche in sede Onu. Ma erano i tempi in cui il Cremlino era in guerra con la Georgia per l’Ossetia del Sud e l’Abkhazia, russofone e russofile, e dunque si pronunciava contro ogni tentativo di cambiare con la forza le situazioni sul terreno. Ora la Russia conduce un’invasione in Ucraina, non può certo usare certi argomenti. In più, assediata dalle sanzioni e con una rete di relazioni internazionali assai più limitata di prima, non può compromettere i rapporti con la Turchia, grande sponsor dell’Azerbaigian ma anche Paese vitale per l’economia russa (i turchi importano dalla Russia il 25% del petrolio e il 50% del gas che consumano) e decisivo per gli equilibri politici e militari sul Mar Nero e oltre.

Nemmeno l’Europa e gli Stati Uniti, però, si sono segnalati quanto a solidarietà con gli armeni del Nagorno Karabakh. Ma per ragioni diverse. L’Europa perché non se lo può permettere: dopo la rinuncia al gas russo, l’Azerbaigian è diventato uno dei maggiori fornitori dei Paesi Ue e non possiamo inimicarcelo. Per gli Stati Uniti il discorso è diverso. A Washington osservano da tempo i tentativi del governo armeno, guidato da Nikol Pashinyan, di staccarsi dalla tutela (e quindi anche dagli interessi) della Russia.

In più, i governi Usa non hanno mai abbandonato il vecchio progetto che ai tempi di George Bush aveva portato (2006) all’inaugurazione dell’oleodotto Baku (Azerbaigian)Tbilisi (Georgia)-Ceyhan (Turchia), ovvero l’idea di “staccare” il Caucaso meridionale dall’orbita russa per farlo “scendere” in quella della Turchia, che è pur sempre un Paese della Nato. Il passaggio del Nagorno al vecchio alleato azero Ilham Aliev serve egregiamente allo scopo: ora gli americani non devono fare altro che aspettare che l’Armenia, come un frutto maturo, si adagi nel loro cestino.

E poi, ovviamente, c’è la stessa Armenia. Il premier Pashinyan sviluppa la retorica antirussa e sta accogliendo tutti i profughi, sforzo non da poco per un Paese di 3 milioni di abitanti che non abbonda in ricchezze (il Pil pro capite è di circa 14mila euro l’anno, al 117° posto nel mondo). Ma non ha mosso un dito per contrastare gli azeri, fatto per cui è duramente contestato in patria. Pare evidente che la dissoluzione della Repubblica indipendentista abbia significato, per lui, per il suo Governo e per una buona parte degli armeni (Pashinyan è stato rieletto nel 2019 e appoggiato contro le critiche dei militari nel 2021), anche la dissoluzione di uno spettro, quello di una guerra con l’Azerbaigian che in un attimo poteva diventare regionale (l’Iran con l’Armenia, la Turchia con gli azeri) e ad altissimo rischio per il suo Paese.

Meglio perdere il Nagorno Karabakh che perdere tutto, insomma. E anche questa è realpolitik. Al netto delle ipotesi e dei ragionamenti, però, resta la vicenda di un popolo, quello armeno, e di una terra, chiamata Armenia già nel sesto secolo prima di Cristo, su cui la storia sembra accanirsi con tenacia spietata e anche beffarda. I turchi giustificarono il genocidio degli armeni del 1915-1916 accusandoli di tramare, loro cristiani, con la Russia ai danni dell’impero ottomano. A Baku, capitale dell’Azerbaigian, in questi giorni, festeggiano la presa del Nagorno-Karabakh portando in corteo la bandiera turca insieme con quella russa.