Opinioni

Andare alle radici del problema. L'antidoto al male

Gianfranco Marcelli domenica 16 dicembre 2012
Se il male può essere il frutto banale del­la dimenticanza di sé, della propria me­moria e delle proprie radici, come scrive­va giusto una cinquantina di anni fa Han­nah Arendt commentando il processo del criminale nazista Adolf Eichmann, la pri­ma ovvia lezione della tragedia americana di Newtown non può che essere una: im­pedire di rendere ancor più 'semplice' l’at­tuazione del male, evitando che circolino liberamente i mezzi per compierlo. Abo­lendo, quindi, la possibilità di vendere e di acquistare con irrisoria facilità armi mici­diali, come quelle che la sfortunata madre del Connecticut collezionava nella sua a­bitazione, insegnandone personalmente l’uso a quel figlio che l’avrebbe poi uccisa assieme ad altri 27 innocenti. Negli Stati Uniti del terzo millennio questa elemen­tare considerazione fatica ad affermarsi, per ragioni storiche, psicologiche e com­merciali analizzate un’infinità di volte. Sempre senza esito. Ma il male, compreso quello più assurdo e apparentemente incomprensibile, non è sempre e soltanto conseguenza di cir­costanze, più o meno banali, 'esterne' al­l’uomo e consentite dai codici sociali del­le comunità nelle quali si manifesta. La violenza selvaggia e devastante riesce ad affermarsi anche là dove vigono rigide re­gole proibizioniste in materia di difesa personale. C’è quindi un livello più profondo di ana­lisi dei 'perché' e di ricerca del 'che fare', al quale occorre sforzarsi di accedere. Nel­lo stesso giorno in cui si è consumata la strage dei bambini, Benedetto XVI ha of­ferto all’attenzione del mondo, con il mes­saggio per la Giornata mondiale della pa­ce, un contributo formidabile alla com­prensione di un evento da lui stesso defi­nito ieri, in un dolente messaggio di cor­doglio, «insensato» e «scioccante». Il Papa ha invitato «le varie culture» del no­stro tempo – tutte, quindi, a partire da quel­le secolarizzate e iperindividualiste del po­stcristianesimo d’Occidente – a interro­garsi nuovamente su quale idea esse col­tivino dell’uomo, del suo destino e del suo mettersi in rapporto con gli altri esseri u­mani, vicini e lontani da lui. Sono le do­mande chiave sull’antropologia, dalle qua­li non si può sfuggire e che non possono essere aggirate da accorgimenti legislativi, per quanto raffinati siano. Possiamo testi­moniarlo anche noi italiani, ai quali qua­rant’anni fa promisero, con il varo del di­vorzio, niente meno che la fine delle liti brutali e delle violenze in famiglia e che oggi ci ritroviamo ad aggiornare, a ritmi sempre più incalzanti, la contabilità delle vittime del cosiddetto 'amore criminale'. Il faro acceso nel messaggio sui rischi del soggettivismo e del relativismo morale portati all’estremo può essere davvero pre­zioso. Le cronache d’Oltreoceano indu­giano nel descrivere la personalità chiusa, ai limiti dell’autismo, del giovane omici­da- suicida. E non è forse un incentivo a u­na sorta di 'autismo etico' – tanto sottile quanto efficace – quello che offrono le so­cietà contemporanee, quando diffondo il 'verbo' della soddisfazione a tutti i costi di ogni desiderio o quando sanciscono con il crisma del diritto assoluto la possibilità di disporre della vita propria e altrui? È probabile che, nei prossimi giorni, l’at­tenzione dei mass media si concentrerà ancora molto sull’impatto che la tragedia avrà nei confronti della tranquilla cittadi­na del New England, funestata nei dieci anni precedenti da un solo altro omicidio. Si continuerà a indagare e a interrogare i suoi sbigottiti abitanti sulle possibili cau­se dell’impulso che ha scatenato la furia di Adam Lanza. Sarebbe invero utile, an­che se irrealizzabile, esplorare la qualità delle relazioni sociali in cui il giovane è cre­sciuto, valutare il sedimentarsi dei valori e dei modelli esistenziali proposti alle ge­nerazioni emergenti, in quella come nel­le tante Newtown, sia dell’America che della nostra vecchia Europa. Si scopri­rebbe forse che a mancare è stata so­prattutto l’offerta di senso: materiale chiave per costruire città realmente nuo­ve, nelle quali abbiano stabile dimora la giustizia e la pace.