Opinioni

Zanardi. Alex e le nostri liti con Dio (Che traguardo è la felicità...)

Marina Corradi domenica 21 giugno 2020

Alex Zanardi

Alex Zanardi, proprio lui? Quando abbiamo sentito la notizia da Pienza in molti abbiamo provato un tonfo al cuore. Il campione paralimpico che corre senza le gambe, l’uomo che vince l’oro spingendo una handbike con le sue poderose instancabili braccia. No, non lui, non doveva accadere a lui un nuovo disastroso incidente, non a un uomo già così messo alla prova dalla vita e capace di una tanto coraggiosa reazione, che a molti altri ha insegnato a non arrendersi.

Non Zanardi, non è giusto, mi sono detta con dolore, entrando nell’ombra del risentimento con Dio - quasi Lui si fosse distratto nell’istante dello sbandamento, mentre un Tir arrivava esattamente in quel secondo, con atroce precisione, dalla direzione opposta.

Fino a quanto può reggere un uomo? Questo bolognese di 53 anni, già campione di Formula Uno, nel 2001 su un circuito tedesco venne estratto moribondo dalla vettura, le gambe tranciate di netto. Mesi e mesi di ospedale. Mesi, forse, di disperazione. Poi, il ferito si mise a litigare con Dio. «Adesso hai veramente rotto! Se era una prova, io mollo!», raccontò di avergli detto. E, fatta salva la "modernità" del linguaggio, viene in mente Giobbe. Giobbe che dapprima maledice, ma non si arrende. E infine accetta il mistero di Dio, e il mistero del dolore.

Nemmeno Zanardi è uno che si arrende. Riprende a correre, su auto modificate. Torna a Lausitzring, la pista maledetta, e completa i 13 giri che gli mancavano, quel giorno. Poi scopre la handbike, e diventa il numero uno al mondo. Ogni giro di ruota fatto con quelle sue braccia di acciaio ci dice che anche una disgrazia annichilente può generare una nuova vita. Ce lo diceva Zanardi fino a ieri, con la sua bella faccia che compariva in uno spot in tv. Tratti forti, padani, terragni, eppure, veniva da pensare, anche una faccia da marinaio. Così almeno mi immagino quei marinai con la pelle spaccata dal sole che s’ imbarcavano sulle caravelle di Colombo o di Magellano. Sfidando non solo l’oceano e le tempeste, ma andando in cerca di mondi che forse non esistevano. Protesi a un oltre, che magari non c’era.
Questo pensavo guardando quell’uomo. E perciò saperlo sfracellato da un camion, e ora intubato e in prognosi riservata, mi ha fatto, a caldo, arrabbiare con Dio. Non si può chiedere così tanto a nessuno, gli ho contestato.

Poi ho riflettuto su un così singolare destino. Su un campione che ha ritrovato la fede litigando col Padreterno, da un letto di ospedale. Misterioso destino davvero, quello di un testardo figlio di un idraulico bolognese, e misterioso ancora più il disegno di Dio su di lui. Noi non possiamo capire. E quindi, occorre tacere.
Mi colpisce però che Zanardi poco prima dell’incidente di ieri venerdì abbia detto, è stato riferito, di essere felice. Felice su quella sua bicicletta per "diversamente abili" nella fatica di una gara estiva, felice della sua famiglia e della sua vita, che tanti altri avrebbero giudicato distrutta.
E su quella felicità, improvvisa, piomba l’ombra della morte. Zanardi, da pilota, era noto per la capacità di recuperare posizioni e arrivare sul podio, anche se partiva svantaggiato. Nel gusto di sfidare le circostanze avverse. È questa, cominciata in una curva nei pressi di Pienza, ancora una sfida? Cosa si staranno dicendo, il campione e Dio, nel silenzio di una stanza di terapia intensiva? Zanardi è uno che non si arrende mai. Che ha superato, nei giorni in coma nel 2001, ben sette infarti. Un irriducibile: e gli auguriamo di cuore di vincere questa estrema battaglia.

A noi, gente normale, basterebbe però forse sapere di poter dire, un’ora prima di un tragico incidente, "Sono felice". Già di questo saremmo grati: come se in quella letizia ci fosse il segno di una vita compiuta, di una linea di traguardo raggiunta - di una pace aspramente conquistata.