Opinioni

Una protesta inutile che rinnova il dolore. Aldrovandi, ancora lacrime Quando muore il figlio di tutti ​

Giovanni Ruggiero venerdì 29 marzo 2013
Ci saremmo aspettati parole di scuse sul sito internet di quel sindacato di polizia che l’altro giorno ha inscenato una manifestazione sotto gli occhi e davanti al dolore di una madre alla quale quattro uomini al servizio della legge uccisero il figlio: Federico Aldrovandi. Invece niente: soltanto un lambiccare su questioncelle di dozzina che, anziché lenire il dolore, fanno ancora sanguinare una piaga. Un dolore che non è soltanto della madre dolente per la morte del figlio, ma un dolore che è di tutta la società, perché un reato grave, come può esserlo l’omicidio sia pure colposo, ferisce e offende tutto il corpo sociale. Che reagisce con una richiesta di giustizia, e la sentenza, al termine di un regolare processo in cui le parti hanno potuto portare le loro ragioni, sana o dovrebbe sanare non soltanto il conflitto tra offesi e offensori, ma anche la lesione collettiva che è stata procurata.
Ci limitiamo a dire che una parola di scusa sarebbe ancora necessaria, visto che non sono bastate quelle che il capo della Polizia, lo scomparso Antonio Manganelli, sentì come dovere di dire alla mamma di Federico: «È giunto il momento di farvi le nostre scuse». E l’abbracciò, marcando la distanza tra pochi poliziotti che avevano sbagliato e tantissimi altri che fanno invece solo il loro dovere. Non entriamo nel merito della vicenda perché sarebbe mancanza di rispetto della giustizia che si è pronunciata, e se insistessimo nel difendere l’indifendibile, vale a dire i quattro poliziotti riconosciuti colpevoli al termine di un regolare processo, potremmo commettere apologia di reato.
Ma questa vicenda fa emergere ancora una volta quel malinteso senso che abbiamo nel nostro Paese della giustizia. Scrive questo sindacato, che non è certo il più rappresentativo della polizia, di aver invitato pubblicamente la mamma del giovane ucciso «a intervenire in un confronto pubblico, perché tutti potessimo ascoltarci a vicenda e capire chi avesse da dire cosa». A parte che così non servirebbe a niente, perché ciò che conta è stato purtroppo già detto in una morte atroce e in un regolare processo, si dimentica che anche questa vicenda penosa e dolorosa non è una faccenda privata da risolvere tra le parti.
Il fatto penale che offende una persona o un bene, e poi attraverso questi tutta la società, non è una vicenda che può essere gestita in termini privatistici con un accordo tra le parti, anche con un possibile risarcimento. E anche il perdono, che la vittima o chi per essa può manifestare nei confronti di chi ha commesso il fatto delittuoso, non arresta e non dovrebbe incidere sulla macchina giudiziaria.
Piuttosto potrebbe aver peso il pentimento che avrebbe effetto giuridico, ma non tra le parti, bensì tra l’autore del fatto criminoso e il giudice che in quel momento incarna la giustizia. Pentimento che non ha mai sconvolto l’animo degli autori di questo omicidio: «Non c’è stato – ha scritto il giudice – un gesto, anche solo simbolico, nei confronti della vittima e dei familiari», e per questo sono stati negati agli imputati alcuni benefici. In materia penale non sono in discussione beni che sono nell’esclusivo interesse delle parti. In una vicenda penale possiamo immaginare l’ambito giudiziario come certe scene teatrali: le luci si abbassano e i personaggi, che fin dalle prime battute abbiamo ritenuto come protagonisti, come le persone offese dal reato, fanno passi indietro fino ad appiattirsi contro il fondale, mentre i riflettori rischiarano soltanto la legge e l’imputato.
La luce è sulla funzione del magistrato che giudica in nome di tutti, anche di chi non è presente sul palcoscenico della giustizia, e sull’imputato, sulle sue colpe o le sue ragioni. La madre piange sullo sfondo della vicenda, dietro una quinta. Le sue lacrime per quanto amare non possono far aumentare la pena che il codice prevede, e se il suo cuore fosse tanto generoso da perdonare chi le ha ucciso il figlio, ciò nemmeno basterebbe a mandare liberi dal peso gli assassini. Neanche un atto di clemenza potrebbe liberarli davvero. Solo chi ha sbagliato può riscattarsi.