Opinioni

I kamikaze taleban e la sfida per la Nato. A Kabul è tempo di schierare le idee

Elio Maraone giovedì 12 febbraio 2009
Buone e cattive notizie sul fronte afghano. Le cattive, ancora una volta schiaccianti, dicono che kamikaze taleban, in una serie di attacchi sincronizzati e coordinati contro edifici governativi di Kabul, hanno ucciso una trentina di persone e ne hanno ferite decine. La ferocia dell’azione, ultima di una catena implacabile e ormai quasi innumerevole ( gli attacchi suicidi sono stati centoventi soltanto lo scorso anno), dimostra quanto i taleban restino pericolosamente intraprendenti, persino nel centro della capitale, quanto disprezzino la vita dei cittadini ( la maggior parte delle vittime sono civili), e di conseguenza, quanto lontani siano il governo di Kabul guidato dal presidente Hamid Karzai e i suoi alleati occidentali dal riportare la pace in Afghanistan. Quasi certamente non è un caso che l’attacco di Kabul, accompagnato da altre sanguinose azioni nel resto del Paese, sia stato scatenato alla vigilia della visita nella capitale di Richard Holbrooke, l’inviato speciale del presidente americano Barack Obama nella regione, il quale nel frattempo era arrivato nel Nord­Ovest del Pakistan, considerato una roccaforte dei guerriglieri islamici. Ossia nel punto più critico del territorio che Holbrooke chiama «AfPak» , per affermare che ormai «esiste un unico teatro di possibili operazioni, da una parte e dall’altra dell’incerta frontiera» che separa l’Afghanistan dal Pakistan. Tutto ciò, vale a dire il nuovo punto di vista, da inserire nell’assai vasto e complesso quadro di aggiornamento della politica estera statunitense, costituisce una delle pochissime buone notizie di questi tempi, corroborata da quella di un mutato spirito a Mosca, dove il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha detto che il suo Paese è disposto ad una « più stretta cooperazione » con gli Usa, particolarmente riguardo all’invio dal Nord, via terra e via cielo, anche con aerei russi, di rifornimenti alle truppe Nato in Afghanistan. Ancora, e sempre ieri, è giunta notizia che la guida della revisione della politica statunitense in Afghanistan è stata affidata a Bruce Riedel, un ex funzionario della Cia noto per le sue forti critiche a George W. Bush, per esser favorevole a un aumento dell’aiuto nel settore economico e delle infrastrutture afghani, ma anche contrario all’avvio di colloqui con i taleban moderati ( o presunti tali) per trovare il compromesso caldeggiato anche da alcuni vertici militari. Quale che sia la citata revisione, che Obama presenterà agli alleati nel prossimo vertice Nato del 3 aprile a Strasburgo, già se ne intravedono difficoltà e rischi. Il capo della Casa Bianca ha già anticipato di voler raddoppiare il proprio contingente militare in Afghanistan ( che passerebbe da trenta a sessantamila uomini), ma anche di aspettarsi uno sforzo analogo da parte degli alleati, sinora tiepidi. E non è soltanto questione di schierare più truppe in una regione dove quelle presenti si mostrano drammaticamente incapaci di mantenere ordine e sicurezza. C’è infatti la necessità di accelerare l’intero sviluppo economico- sociale del Paese, sviluppo nel quale, si presume, l’Unione Europea dovrebbe finalmente assumere un ruolo- guida. Ma quello che evidentemente, e prima di tutto, serve è una strategia globale e coerente e largamente accettata, in grado di rendere concreta l’ipotesi della fine della corruzione dilagante e insomma di uno « Stato narcoterrorista » ( parola del segretario di Stato Hillary Clinton) retto a malapena dall’ormai screditato Karzai. Tale strategia appare essenziale, prima di inviare altri soldati nella rischiosissima avventura afgana.