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1999-2019. Vladimir Putin, vent'anni da zar. E non si vuole accontentare

Giorgio Ferrari domenica 29 dicembre 2019

Vladimir Putin nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, a Mosca il 19 dicembre 2019

Vent’anni fa – per l’esattezza il 31 dicembre 1999 – il presidente della federazione Russa Boris Eltsin rassegnava all’improvviso le dimissioni. Un changeover repentino e quasi brutale. Ad assumere la carica ad interim era il fino ad allora semisconosciuto apparatchik di Leningrado Vladimir Vladimirovic Putin, già ufficiale del Kgb distaccato a Dresda, quindi braccio destro del sindaco della ribattezzata San Pietroburgo Anatolij Sobcak, fino all’approdo a Mosca, e l’ascesa subitanea, folgorante nell’empireo del potere.

Scrutato con sospetto dagli oligarchi che si erano spartiti le succulente ricchezze del Paese in disfacimento, questo piccolo uomo schivo e abitudinario, nato povero e vissuto per anni in una mesta kommunalka, ne divenne il terrore assumendo la guida dell’Fsb, il servizio segreto federale erede del Kgb.

Sarebbe durato poco, scommettevano in molti: esausto e infiacchito dalle inchieste per corruzione e dalla recrudescenza della guerra in Cecenia, Eltsin aveva giocato l’unica carta possibile, quella di nominare un successore disciplinato e incolore, manovrabile e diligente come si conveniva alla Nuova Russia, dove il trapasso del potere non avveniva più attraverso i veleni e pugnali nelle stanze ovattate del Politburo, ma con quel quid di glasnost – come avrebbero dimostrato le elezioni che si tennero poco dopo – che assegnava all’ex Unione Sovietica una parvenza di democrazia.

Sottovalutare Putin è stato l’errore più grande – e non di rado letale – dei suoi innumerevoli avversari e oppositori. Dai tycoon della Yukos Lebedev e Chodorovskij al magnate dell’Aeroflot Berezovskij fino all’ex colonnello del Kgb Litvinenko avvelenato dal polonio 210 e alla giornalista di Novaja Gazeta Anna Politkovskaja (assassinata dai sicari nell’ascensore del suo palazzo), l’ascesa irresistibile dell’incolore funzionario ha cambiato il volto della Russia. Paese di millenaria sottomissione al potere centrale, si stava decomponendo nello sgangherato liberismo economico promosso da Eltsin.

Putin ha rapidamente invertito quella spinta centrifuga intervenendo in Cecenia, in Georgia, annettendo la Crimea e riconquistando prestigio e potere in Medio Oriente grazie a una politica estera parente stretta dell’imperialismo di Leonid Brèžnev (fondamentale in tal senso l’apporto discreto ma efficacissimo del fedelissimo ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov) e a una riorganizzazione del ceto oligarchico divenutogli devoto grazie al più elementare dei patti scellerati: ricchezza e privilegio in cambio di totale sottomissione, mentre al popolo offriva un patto di scambio fra sicurezza e libertà.

Ben lubrificata dal nazionalismo sapientemente riesumato, dal riannodato legame fra lo Stato e il Patriarcato ortodosso e da una duplice nostalgia, quella della Russia zarista e quella del rimpianto degli anni precedenti il crollo dell’impero sovietico («Una catastrofe mondiale», l’ha definita lo stesso Putin, assegnando a Michail Gorbaciov – come hanno fatto milioni di russi – la colpa imperdonabile di aver svenduto la Russia all’Occidente), la Belle Époque putiniana per lungo tempo ha funzionato, complice la crescita economica, i salari più che decorosi, la corsa al benessere, la svagata amnesia delle nuove generazioni.

Sullo sfondo, un capitalismo autocratico che da un lato scimmiottava l’Occidente e dall’altro nascondeva nelle pieghe più oscure della coscienza dei più anziani – come ben spiega nel suo Tempo di seconda mano il Premio Nobel Svetlana Aleksievic – il lutto per la scomparsa di quel Partito che da Lenin a Stalin fino a Brèžnev era onnipotente e onnipresente. Non per nulla Putin ha subito ripristinato – con opportune modifiche nell’incipit ( Rossija svjašcennaja naša deržava, Russia, il nostro sacro Paese) – l’inno nazionale. Un inno che al momento del referendum sull’annessione della Crimea (posso personalmente testimoniarlo) nelle strade e nelle piazze di Sebastopoli, di Yalta, di Sinferopoli, tutti, anche i giovanissimi, conoscevano e cantavano.

A dispetto delle manifestazioni di piazza in corso in questi mesi, questa Russia che fino a poco fa garantiva oltre il 70 per cento dei consensi a un gelido zar che mieteva successi a catena sulla scena internazionale, ostenta tuttora un invidiabile ottimismo. Secondo la scrittrice russoamericana Masha Gessen – autrice di un memorabile ritratto di Putin e più recentemente di Il futuro è storia, documentatissima analisi della prematura morte della democrazia in Russia – il settantennio di autoipnosi comunista ha sottratto al popolo russo il posto che gli spettava sul treno della modernità.

Ne è uscito – una volta fallito l’homo sovieticus – un soggetto disorientato ma non meno plasmabile, che l’abile regia del potere ha colmato di orgoglio dopo anni di umiliazioni insieme a forti dosi di nazionalismo sovranista, di machismo bellico, di autoritarismo mascherato. Una cosa Putin l’ha capita molto in fretta: non potendo la Russia correre e crescere allo stesso ritmo delle democrazie occidentali, è certamente più facile e soprattutto più conveniente, come ha spiegato nella ormai celebre intervista al Financial Times del giugno 2019, influenzare e indebolire quelle democrazie liberali (non di rado giocando sull’ambiguità semantica fra “liberale” e “liberista”), denunciandone l’anacronistica inutilità in un contesto planetario che di questo tipo di democrazia – Cina, Turchia, e in qualche modo anche l’America di Trump insegnano – non sa più che farsene.

Ma cosa pensa davvero Vladimir Putin?

Apparentemente a guidarne le scelte sono tre figure carismatiche: Ivan Ilyin, Lev Gumilëv e Alexander Dugin. Non sono nomi di oligarchi, nemmeno uomini della nomenklatura e neppure membri del cerchio magico del presidente. Eppure lo influenzano profondamente. Moscovita, membro di una famiglia aristocratica, Ilyin teorizzò un «cristianesimo fascista» (la terminologia è sua) che sopperisse alla decadenza morale e civile dell’Occidente e al tempo stesso superasse la tragedia del comunismo rivendicando per la Russia la missione salvifica e redentrice, una terza via fra «l’immoralità pagana» dell’Europa e l’orrore del bolscevismo, riuscendo a influenzare personaggi come Aleksandr Solgenitsin o il regista Nikita Mikhalkov.

L’altro faro è quello di Lev Gumilëv, figlio della poetessa Anna Achmatova, teorico di una visione eurasiatica – una sorta di Manifest Destiny in versione pan-russa – che incita Mosca a prendere le distanze dall’Occidente per guardare all’Asia, destino naturale di quell’ethnos che appartiene di diritto ai russi e che impone di rinnegare le sirene filo-slave e filo-occidentali per ritrovare le radici più autentiche, quelle mongoliche: i famosi «calzari asiatici» invocati dal monaco-filosofo Konstantin Leontev, (che nel saggio L’Est, la Russia, gli Slavi già nel 1865 invitava i russi «a scuoterne via la polvere romano-germanica») e chiave di volta del pensiero del terzo e più insidioso dei grandi influencer di Putin, Alexander Dugin, intellettuale dalla lunga barba dostoevskiana con scoperte ascendenze che vanno da Heidegger a René Guenon fino a Julius Evola e fondatore del Partito nazional-bolscevico.

Quanto poi Putin obbedisca ai richiami delle sue tre sirene non lo sapremo mai. Di certo ha imboccato con maestria la via della democratura, forte di un piglio autoritario e di una propensione all’azzardo che ne fa un protagonista mondiale di primo piano (per alcuni, l’uomo più potente del mondo, davanti a Xi Jinping e a leghe di distanza da Donald Trump). Due sole falle nel suo impero immobile: al momento non si intravede un successore e l’economia nazionale è più che mai fragile. Ma il suo, non v’è dubbio alcuno, è stato un ventennio di successo, anche se vissuto assai pericolosamente.