Mondo

BELEM. Vita da favela

Dal nostro inviato a Belém (Brasile) Paolo Lambruschi venerdì 6 marzo 2009
Case a due piani in muratura, blindate dalle inferriate, at­taccate a baracche sganghe­rate di legno. Strade di terra battuta sommerse dall’acqua, bimbi scalzi che girano seminudi nel fango. Pa­lo central è la strada segnalata come zona vermelha, la zona rossa di Guamà , la più pericolosa della prin­cipale favela di Belèm. La capitale del Parà sorge alla foce del Rio del­le Amazzoni, ha un milione e 800mi­la abitanti, il 40 per cento dei quali vive in baraccopoli. È la percentua­le più alta tra le capitali federali bra­siliane. È stagione delle piogge, in Amazzonia tutti i giorni a mezzo­giorno e verso sera acquazzoni e scrosci violenti in un istante allaga­no le strade prive di fognatura. L’ac­qua è il confine e il fondamento del­la favela. Oltre a Guamà, circa 80mi­la abitanti, dal nome di un affluen­te del Rio delle Amazzoni, l’altro grande slum si chiama Tira Firme (terra ferma). Le baraccopoli sono sorte sul fiume e le case che delimi­tano la favela, alcune ancora di le­gno, molte in muratura, sorgono su palafitte sopra i liquami di un cana­le di scolo. Questa favela nasce da un a logica cinica, è la discarica in cui si racco­glie lo scarto umano della foresta. Si è sviluppata dagli anni 60 con i pri­mi contadini e indigeni espulsi dai latifondisti dalla foresta. Per ricava­re pascoli e legname, gli alberi ven­gono tagliati selvaggiamente chi vi­ve da secoli di agricoltura e pesca doveva andarsene diventando sem terra, senza terra. Così è aumentato l’esodo verso la città, dove i conta­dini hanno occupato la terra e co­struito. Da qualche anno attorno al nucleo originale di Guamà è esplo­so un grande agglomerato abusivo. Le baracche della favela dei sem ter­ra oggi circondano la città, ma spun­tano anche nel centro tra auto, ne­gozi e appartamenti di lusso. Vivo­no in queste condizioni circa 500 mila persone, la metà dei quali cam­pa con un reddito medio che sfiora i cinque reals al giorno, due dollari, la soglia che per le convenzioni in­ternazionali indica il confine con la miseria. Una famiglia su tre è costi­tuita da ragazze madri. Le coppie difficilmente si sposano, spesso l’uo­mo forma più famiglie e alle donne tocca mantenere i bambini. La po­vertà diffusa alimenta la criminalità, rapine, prostituzione minorile e spaccio di droga. Solo un ragazzo su quattro finisce la scuola dell’obbli­go I dodicenni di Guamà spesso sniffano colla e solventi per regalar­si qualche attimo di fuga dal degra­do. Sulle strade vediamo le baby­prostitute con un trucco pesante sul volto da bambina aspettare i clien­ti davanti a bordelli mascherati da improbabili negozi di estetiste. «Ma anche a Guamà e a Tira Firme sono sorte molte attività commer­ciali legali – spiega padre Claudio Pi­ghin, friulano di Casarsa, 56 anni ,missionario del Pime arrivato in Brasile 30 anni fa, compagno di messa di padre Giancarlo Bossi, il missionario sequestrato e liberato nelle Filippine – come bar, negozi di alimentari, abbigliamento e alcune attività artigianali. Ora, con la crisi, si è dimezzata la quantità di riso e fa­gioli venduta, ad esempio. E la fa­vela sta cambiando, ci finiscono an­che i nuovi disoccupati che prima stavano nei quartieri di operai e im­piegati ». L’economia della favela si intuisce anche dalle antenne paraboliche sui tetti. Le compagnie via cavo fanno normalmente contratti di installa­zione e abbonamenti ai favelados, buoni clienti. Luce ed acqua pota­bile spesso vengono da allaccia­menti abusivi. Il comune però ha dato nomi alle strade e numeri civi­ci alle case. Entriamo nel bar di don­na Flor, accanto alla chiesa di Santa Maria Goretti, che il sacerdote ita­liano, arrivato a Belèm nel 1990, ha fondato dopo quattro anni spesi a farsi accettare. Lo mandò il vescovo per celebrare messa in quella che al­lora era una piccola cappella e lui l’ha trasformata in una chiesa dedi­cata alla protettrice delle ragazze violentate e sfruttate per mangiare. «Abbiamo avuto – confida – casi di aborto anche di bambine di 10 an­ni ». Il bar di Dona Flor è una grande ba­racca in legno che vende in nero al bancone alcolici e bibite. È uno dei punti di ritrovo, si viene qui a bere birra o cachaca, il liquore di canna da zucchero, e giocare al lotto. Sul re­tro, la casa di quattro stanze dove vi­vono tre generazioni insieme. La nonna e il marito, la figlia con il com­pagno, e i nipoti. I panni sono stesi ad asciugare sui fili tirati in soggior­no. In cortile ci mostrano con legit­timo orgoglio un gabinetto. Una ra­rità nella favela, anche lo spazio di tre stanze in una baracca è un lus­so. «Spesso la casa è costituita da una stanza sola – aggiunge padre Pighin – dove tutta la famiglia mangia e dorme in condizioni di promiscuità. Il degrado e la miseria vanno a brac­cetto con le attività criminali e la prostituzione anche minorile. Sen­za contare che spesso i bambini ven­gono abbandonati o restano orfani. Allora finiscono a vivere in strada». Donna Flor è cieca e scatta in piedi quando sente la voce di padre Clau­dio salutarla per abbracciarlo. Usciamo a passeggiare su Palo cen­tral. Passando, si avvicinano perso­ne che ci mettono in guardia con due parole: «Zona vermelha». La regola è che dopo il tramonto, se hai la pelle bianca e sei occidentale, è meglio girare al largo da Guamà. E di giorno, chi gira a piedi a Palo cen­tral, la via principale, larga e sterra­ta, lo fa a suo rischio e pericolo. Gruppi di giovani sentinelle sedute davanti alle case osservano i pas­santi, i rari forestieri non passano i­nosservati. Perciò vietato estrarre cellulari, portafogli o macchine fo­tografiche digitali. Circolano poche auto e quelle dei favelados sono te­nute rigorosamente sotto chiave dietro le sbarre delle grate metalli­che. I taxi si rifiutano di condurre il cliente qui, spesso nemmeno con salate maggiorazioni e neppure la polizia entra se non con sanguino­se incursioni dei reparti speciali in assetto di guerra. Lo Stato a Guamà, controllata dalle gang, ha la faccia dell’elicottero che gira in continua­zione sopra le nostre teste. Solo a Palo Central si registra una media di quattro rapine al giorno. Anche noi, nonostante la presenza di padre Claudio, ce la caviamo grazie alla se­gnalazione di una catechista della parrocchia che, urlando, mette in fuga due gruppi di bambini che ci stavano circondando alle spalle. Normale routine nella favela vio­lenta dei disperati, affacciata sul fiu­me, ma ormai troppo lontana dalla foresta per ricordarne l’umanità. Guamà è la principale favela di Belèm. Nella capitale dello stato brasiliano del Parà il 40 per cento degli abitanti vive in baraccopoli: è la percentuale più alta tra le capitali federali