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LA FEDE NEGATA. Fuggono per non bruciare la Bibbia Ecco la Pasqua difficile dei cristiani d'Orissa

dal nostro inviato a Phulbani (Orissa) Claudio Monici giovedì 9 aprile 2009
Miseri villaggi rurali, segnati da una dif­fusa povertà economica, umana e culturale, che ancora vivono la lon­tana attesa dei «tempi moderni», si rifletto­no nel finestrino dell’auto­mobile. Fotogrammi di un vecchio film in bianco e ne­ro, mentre il veicolo che ci trasporta procede sulle pol­verose strade del distretto di Kandhamal, cercando di scansare vacche sacre e gio­vani capretti che vagano in libertà. Casupole tutte uguali e malconce si succedono l’u­na all’altra, avvolte dall’aria appiccicosa dell’umido mat­tino, accanto i loro incerti braceri, in cui è mi­sero anche il fuoco che brucia. Ci vogliono sette ore di viaggio per fare 200 chilometri nel territorio che un giornale indiano ha defini­to «una terra diventata sinonimo dell’odio nel nome di Dio». Sette ore per risalire le sue montagne, le sue foreste, nel cuore dello Sta­to di Orissa. Il più povero in assoluto dei 28 Stati che costituiscono l’Unione in­diana; il più arretrato per scolariz­zazione, assistenza sanitaria e in­dici di benessere. Dove l’88 per cen­to della terra appartiene allo Stato. Qui i bambini con la zappa in spal­la non sanno che cos’è una scuola e molti anziani languono accascia­ti ai margini della società, soltanto una pezza sfrangiata, sporca, get­tata sulla schiena, senza il confor­to di una medicina. Storpi e mala­ti si arrangiano come possono, le donne lavorano nei campi e poi do­vranno occuparsi del cibo per i ma­riti e i figli. Occhi di questo pezzo di continente indiano, terra dei più miseri tra i miseri, ma anche 'la­boratorio' di una pulizia religiosa e di classe, perché i cristiani sono considerati un argine alla costru­zione del pensiero unico, del fana­tismo nazionalista e estremista indù, che divide il mondo in rigide caste e che urla il suo slogan della paura: «Bharat mata ki joy», essere indù per salvare la madre India. Nell’agosto del 2008, in conse­guenza dell’assassinio di un capo radicale politico e religioso indù, Swami Laxmanananda Saraswati, benché un gruppo armato maoista avesse rivendicato l’omicidio, gli induisti at­taccarono la comunità cristiana. A distanza di mesi, vivere da cristiani nell’a­gitata Orissa (34 milioni di abitanti; l’1% quel­li che pregano Gesù Cristo, il 18% risiede nel distretto di Kandhamal) continua a essere pe­ricoloso. «È come stare in una bolla di luce, circondata da una ne­bulosa di incertezza e paura», fa notare un re­ligioso indiano. Sulla strada le tracce, le ferite di quanto acca­duto nei mesi passati restano impresse e ben evidenti. Il convento bruciato, la chiesa cat­tolica distrutta, dove la gente, comunque e no­nostante la paura, tor­na a radunarsi per una preghiera, i centri del­la Caritas locale e della pastorale con le por­te sfondate dai colpi d’accetta e ogni cosa in­cenerita, i computer sfasciati, i libri affumi­cati, le statue del presepe fuse dal forte calo­re, le fotografie dei giorni felici ridotte a sfo­glie di carbone. Impressiona la distruzione delle povere case appartenute ai cristiani e delle chiese co­struite di terra impastata a paglia, che la rab­bia indù ha trasformato in roghi sui quali get­tare madonne decapitate, libri religiosi, ta­bernacoli violati e statue dei santi pestate con così tanta rabbia da essere ridotte in bricio­le. Come il marchio in rilievo del dolore che ha segnato un corpo senza sollievo, improvvi­sate tendopoli raccolgono decine di famiglie di sfollati, perché nessuno li vuole e nessun altro li aiuta. Sorgono accanto a ciò che resta di un villaggio o di un pugno di casupole di contadini cristiani o al riparo di una missio­ne sopravvissuta alla rabbia distruttrice indù, ma anche tra le mura di un lebbrosario ge­stito dalle suore missionarie della carità di madre Teresa di Calcutta, «Non piangere. Dio ti aiuta», dice il nostro ac­compagnatore rivolgendosi a un padre di fa­miglia in lacrime nel raccontare la sua storia.L’uomo, balbettando, risponde: «Quando po­trò tornare alla mia casa? Non è rimasto più niente. Mi hanno bruciato la casa. Quella è la terra dove sono nato. Dove vado? Chi mi aiu­terà? ». Nella tendopoli, il calore fonde gli odori men­tre le persone si radunano. Sono facce che hanno lo stesso colore della terra. Tutti dico­no di quando il grido degli indù ha rotto il si­lenzio della notte e le torce hanno illumina­to i villaggi per poi ardere e uccidere. Rac­contano della paura che ancora portano ne­gli occhi. «Siamo fuggiti nella foresta. Senza niente da mangiare per giorni», spiegano. Per­si nel silenzio di una vegetazione dove stri­sciano i cobra. Senza avere notizie dei propri cari, dei vicini di casa. Con le mani a tappar­si le orecchie per non sentire le grida di do­lore di chi era picchiato a sangue, o della don­na costretta a subire una brutale violenza. Ma anche l’ultimo gemito di chi veniva ucciso. Dalla foresta vedevano bruciare la loro chie­sa e sentivano l’ultima oltraggiosa scampa­nacciata. E davanti alla minaccia di essere ucciso c’era chi non riusciva a dire no: con­versione forzata all’induismo in cambio del­la propria vita. «Strappare la Bibbia e poi bru­ciarla », ricorda l’uomo che piange, mentre altre voci che si fanno forza offrono adesso storie di famiglie miste: un cristiano sposato a una indù, rincorsi dalle minacce selvagge al loro figlio maschio da bruciare vivo. Ma an­cora più atroce è l’ascoltare la storia di chi dopo essere stato bastonato fin quasi alla morte «è stato sepolto vivo, mentre attorno gli assalitori gli gridavano: 'Adesso aspetta il tuo Gesù che ti verrà a salvare'».La vicenda. Le violenze contro i cristiani in Orissa, a partire dal 24 agosto 2008, hanno provocato la fuga di 10.000 famiglie, pari a circa 54.000 persone. Sono un’ottantina i morti accertati, secondo le fonti della Caritas diocesana di Bhubaneswar, capitale dello Stato di Orissa; secondo il governo locale, le vittime sono invece poco più di quaranta. Oltre 5mila le case devastate o bruciate; 392 i villaggi coinvolti nelle violenze. Mentre 149 sono le chiese cattoliche e protestanti danneggiate o completamente distrutte. Una quarantina sono le scuole gestite dai cristiani e i centri destinati alla pastorale e alla catechesi che hanno riportato danni.