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Ucraina. Il Natale clandestino dei cattolici nei territori occupati dai russi

Giacomo Gambassi, inviato a Kiev sabato 7 gennaio 2023

Padre Oleksandr Bogomaz, il prete greco-cattolico cacciato dai russi

Il suo sarà un Natale «in esilio», come lui stesso lo definisce. Lontano dalla terra di Melitopol che mai avrebbe voluto abbandonare. «È terribile non poter essere accanto alla mia comunità per celebrare oggi la nascita di Salvatore», sospira padre Oleksandr Bogomaz. Arrestato e poi cacciato dalle truppe di occupazione russa dopo una sentenza farsa. Le sue colpe? Essere un giovane sacerdote greco-cattolico e non voler diventare cittadino russo nella città dell’Est dell’Ucraina da cui l’esercito del Cremlino controlla due terzi della regione di Zaporizhzhia. Padre Bogomaz era uno degli ultimi tre preti cattolici rimasti nella parte dell’oblast in mano ai russi e impegnati insieme nel servizio alle comunità. Tutti sono stati espulsi a poche settimane dal 7 gennaio, giorno in cui le maggiori confessioni cristiane festeggiano la Natività secondo il calendario giuliano.

Un Natale senza la propria gente per i tre pastori d’anime schedati come «fomentatori dell’inimicizia interreligiosa» dai servizi segreti di Mosca che li hanno deportati fino all’ultimo posto di blocco. Politico il processo; politica la condanna: il confino. E un Natale clandestino per le parrocchie di un’area equivalente alla Slovenia che, senza più sacerdoti, sembrano essere tornate indietro di almeno mezzo secolo, ai tempi dell’Unione Sovietica e della Chiesa “sotterranea” che era la sola via possibile nella tenaglia del terrore. Nessuna celebrazione. Forse neppure un raduno nelle chiese per il rischio di incursioni o delazioni. Magari soltanto la Messa da seguire via Internet, nel chiuso delle case e al riparo da sguardi indiscreti.

Il presepe allestito in una chiesa cattolica d Kiev - Gambassi

«Dopo lo pseudo referendum di fine settembre per l’annessione della regione, il clima si è fatto sempre più pesante – racconta padre Bogomaz –. Per sette volte uomini mascherati e con i fucili d’assalto hanno fatto irruzione nella canonica. L’ultimo blitz è stato il primo dicembre quando di nuovo mi hanno obbligato a prendere il passaporto russo. Ma mi hanno anche comunicato che la Chiesa cattolica era stata messa al bando dalle autorità locali e che sarei stato estromesso». Qualcuno sostiene che sia stata una ritorsione dopo i blitz degli 007 ucraini nei monasteri e nelle eparchie della Chiesa ortodossa ucraina legata al patriarcato di Mosca e sospettata di collaborazionismo. Fatto sta che il sacerdote si è rifiutato di partire. «Hanno invaso lo stabile, rubato il furgoncino parrocchiale e tutto ciò che volevano». E lui si è trovato richiuso in una stanza. «L’interrogatorio è stato pesantissimo. Ho subìto anche minacce di morte. Più volte mi sono sdraiato sul pavimento e ho pianto. Chiedevo a Dio di darmi la forza di resistere». E dal cielo l’aiuto è arrivato. «Non so perché il Signore mi abbia salvato», sussurra. Rilasciato, sì, ma subito allontanato dalla città che per i due Paesi in guerra è la “porta sulla Crimea”.

Un angolo dove affondano le radici di Oleksandr. Trentatré anni, prete da sei, è originario del villaggio di Nizhny Sirogozy, a metà strada fra Melitopol e Kherson. Terre su cui Putin si è accanito per controllarle a ogni costo. Come accade alla città portuale di Berdyansk, citata dal capo della Chiesa greco-cattolica, l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, quando nella cattedrale della Risurrezione a Kiev ha voluto al suo fianco padre Bogomaz appena liberato. Gli ha baciato le mani ed è tornato a denunciare l’arresto illegale di due preti di Berdyansk, padre Ivan Levytskyi e padre Bohdana Geleta, detenuti da quasi due mesi e «torturati senza pietà per estorcere confessioni di crimini che non hanno commesso», ha rilevato Shevchuk. Rischiano l’accusa di terrorismo perché le autorità d’occupazione sostengono di aver trovato in chiesa «esplosivi e letteratura estremista».

Padre Oleksandr Bogomaz, il prete greco-cattolico cacciato dai russi - Facebook/Bogomaz

«Il patriarca mi ha sempre sostenuto – afferma il sacerdote –. Quando i russi ci hanno attaccato, l’arcivescovo mi ha detto che, se avessi deciso di rifugiarmi altrove, nessuno mi avrebbe giudicato». Padre Oleksandr sfiora la croce di legno che scende dal collo. «Ammetto che un momento di cedimento l’ho avuto. Però, non appena ho visto il mio popolo alla liturgia domenicale, ho vinto ogni dubbio e sono rimasto». Nove mesi di occupazione vissuti con la talare. «Prima dell’invasione, Melitopol contava 160mila abitanti: adesso non raggiunge i 50mila. Le giornate sono segnate dalla miseria, dalla paura e dall’oppressione». Come negli anni bui dell’Urss. «Si ha il timore di esprimersi. Le denunce si moltiplicano. Gli appartamenti degli sfollati sono stati requisiti e assegnati a chi è stato fatto giungere dalla Russia per cambiare la fisionomia della città». Stravolta la vita ecclesiale. «Siamo diventati un ospedale da campo, direbbe il Papa. Abbiamo assistito gli anziani, portato in ospedale i malati, distribuito kit di viveri. Nei primi quattro mesi di conflitto abbiamo affrontato una drammatica crisi alimentare ma siamo riusciti a consegnare 10mila pacchi con beni di prima necessità. Però, dopo il voto per l’annessione, tutto si è fermato perché gli accessi da cui passavano i carichi sono stati bloccati».

Un attacco nella città ucraina di Melitopol - Ansa

Lo sguardo di padre Oleksandr si alza verso l’alto. «L’occupazione ha riplasmato il mio ministero sacerdotale. Quando si sperimenta un dramma, la Parola di Dio e i sacramenti sono davvero sorgenti di speranza. La gente li chiede, li desidera. Ha bisogno di toccare con mano che il Signore è il consolatore. E lo Spirito Santo ha trasformato le parrocchie in grandi famiglie dove ognuno si fa prossimo all’altro». Con la mente e il cuore padre Bogomaz è sempre là, nella città da riconquistare. «Non intendo sopravvivere, ma vivere. Se a Melitopol non posso stare, mi fermerò nel luogo più vicino al mio popolo: Zaporizhzhia». Ancora sotto le bombe. E con il suo volto di prete ragazzino.