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Olivier Roy (Oasis). «Tutti i nemici del Califfato adesso hanno guai peggiori»

Luca Geronico venerdì 30 giugno 2017

Lo studioso Olivier Roy (Omnimilano)

«È la caduta del Daesh, programmata. Il problema, ora, è che ogni nemico del Daesh ha un nemico ancora più importante del Daesh», commenta Olivier Roy, fra i massimi studiosi dell’islam in Europa, docente all’Istituto universitario europeo di Firenze e membro del Comitato scientifico della Fondazione Oasis, riunito ieri a Gazzada ( Varese) per discutere di «Autorità e libertà nell’islam» del dopo Daesh. «Per i turchi il nemico più importante sono i curdi, per i curdi il nemico sono i turchi e gli iracheni, per il regime di Bashar el-Assad tutto il resto dell’opposizione, per l’Iran il nemico è l’Arabia Saudita e per l’Arabia Saudita il nemico più importante è l’Iran. Si può pensare che la caduta del Daesh venga seguita da un confronto fra le diverse forze regionali che si batteranno per riempire il vuoto e da un’escalation del conflitto fra Iran e Arabia: difficile, però, fare previsioni perché sono tutte alleanze reversibili. Vi è poi il problema dei combattenti che si sono arruolati con il Daesh: cosa faranno? Se ritorneranno in Europa, da dove alcuni di loro sono partiti, organizzeranno nuovi attentati? È probabile che ritornino ad al Qaeda o che nasca una nuova organizzazione jihadista globale: la sparizione del Daesh non calmerà le acque, è sicuro.

Molti parlano di una possibile tripartizione dell’Iraq e di un cambio di confine della Siria. Lo ritiene realistico?

È molto difficile. Il regime di Assad non ha alcun interesse ad accettare la partizione della Siria ed è abbastanza forte per opporvisi, grazie al sostegno di Putin. I curdi in Iraq rafforzeranno la loro autonomia in Iraq, ma gli sciiti iracheni non sono disposti a far nascere un nuovo spazio arabosunnita e infine i turchi sono fermamente contrari a qualsiasi cambiamento di frontiera nella regione perché questo incoraggerebbe le mire autonomiste dei curdi. Non vedo, quindi, come possano essere tracciate nuove frontiere frutto di accordi regionali poi approvati dalla comunità internazionale. Si avranno piuttosto dei poteri di fatto che si andranno a installare in territori sotto il quasi completo controllo di questi stessi poteri, ma gli sciiti iracheni, i turchi e il regime di Assad non accetteranno uno stato quo che permetterebbe a diverse forze di ottenere uno spazio riconosciuto.

In questa ridefinizione di equilibri geopolitici si potrebbe inserire una nuova forma di jihadismo gloabilizzato. In che modo contrastarlo in questa nuova fase?

Al-Qaeda, va ricordato, era contraria alla territorializzazione del movimento perché, diceva, qualsiasi territorio sarebbe diventato un bersaglio sensibile, stretto dall’allenaza fra le forze locali e le nazioni occidentali. Come si è poi verificato. È possibile che la rete di al-Qaeda si ripresenti con forza: terrirismo globale ma senza un territorio da difendere.

C’è poi il terrorismo jihadista in Europa, esploso con il Califfato. Lei lo ha definito una islamizzazione del radicalismo tipico delle seconde generazioni. La caduta di Mosul cosa potrebbe rappresentare per questi radicalizzati sul Web?

Il Califfato potrebbe assumere in un certo senso la figura del martire. Il Califfato ha perso territorialmente, ma ha perso preparando la sua morte: nessun negoziato, nessun accordo, la battaglia fino a farsi uccidere. Come la Comune di Parigi, la disfatta potrebbe essere tramutata in eroismo per una causa nobile ma perduta. Questo potrebbe suscitare una fascinazione per il Califfato, in vece di una disillusione. L’immagine del Califfato che si batte fino alla fine potrebbe essere mitizzata e lo stato maggiore del Daesh potrebbe mettersi in salvo per cercare poi di capitalizzare in questo modo la sconfitta.

Come combattere culturalmente questa fascinazione. Un compito molto difficile per l’Occidente?

Sì, perché molto persone nichiliste o che sono ai margini della società trovano nel Califfato una causa che li valorizza. Per lottare contro questa fascinazione ci sono più livelli: in primo luogo invece di lottare contro gli spazi pubblici della religione bisogna, al contrario, lasciare sviluppare delle forme di islam integrato perché Daesh non possa giocare sulle frustazioni di chi non riesce a vivere con serenità la religiosità. Bisogna poi comprendere le ragioni di questa radicalizzazione della gioventù, perché non è solo una storia di islamizzazione del radicalismo, ma una crisi generazionale che si manifesta, ad esempio, nella guerra delle gang giovanili a Marsiglia: una crisi di società che non si può risolvere con una semplice ricetta.