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Iraq. Trenta ore nella morsa del Daesh. La storia di due ragazze «ostaggi» a Kirkuk

Luca Geronico, inviato a Erbil lunedì 24 ottobre 2016

Ogin Waffar, studentessa di Medicina a Kirkuk, in Iraq

Le abbracciano tutti, come due miracolate, Minas Shitu e Ogin Waffar, da quando sono rientrate al centro di accoglienza Nistiman, nel cuore di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Sono tornate illese alle loro famiglie, dopo aver passato 30 ore in ostaggio del Daesh a Kirkuk, tra venerdì e sabato. Tutte e due originarie di Qaraqosh, studentesse di Farmacia Minas, di Ingegneria Ogin, grazie a una borsa di studio, erano ospiti della casa dello studente nel centro di Kirkuk. «Alle 4 di mattina mi sono svegliata per gli spari e aprendo subito i Social del telefonino ho capito: il Daesh era in città», racconta concitata Minas mentre, sui due letti adibiti a divano del mio appartamento del centro di accoglienza, si accalcano amiche e parenti.

Ancora prima dell’alba, il gruppo di studentesse chiama Abu Duraid, il direttore del collegio femminile della diocesi di Kirkuk. L’uomo, bloccato pure lui a casa dall’attacco terroristico, cerca con dei messaggini di tranquillizzare le ragazze. «State calme. Non uscite. Durerà poco», risponde alla pioggia di messaggini e telefonate. Alle 5 e un quarto, dalla finestra della camera, Minas vede un uomo in divisa militare scavalcare il muro di cinta e piombare nel cortile. Tutte la studentesse si chiudono nelle loro stanze, nascoste sotto i letti.


La giovane Minas

Passano le ore con un frenetico incrociarsi di messaggi fra loro e le famiglie fuori città. Il tam tam della comunità cristiana in pochi minuti lancia l’allarme: «Pregate per noi, scrivono le ragazze». Il direttore, per non creare ulteriore allarmismo, dice alle ragazze di non dare altre informazioni ai parenti attaccati ai telefonini. «Pregate per noi, la sola richiesta». E i segali di allarme non mancano. A metà mattina, netto si sente l’urlo: «Allah-u-Akhbar». Se entrano, consiglia l’unica ragazza musulmana che è con loro, copritevi il capo e dite che siete islamiche: «Vi tratteranno meglio». «Neanche se mi mettono il coltello alla gola. Io sono cristiana», risponde Minas sul gruppo WhatsApp.

Passano le ore. A tratti si sentono spari molto da vicino, forse anche dentro lo studentato. Tramite i Social giunge la notizia che settanta civili sono in ostaggio in un hotel del centro. Anche loro lo sono, solo che i terroristi – almeno due secondo le ragazze – non si sono accorti della loro presenza. Altre ore di attesa nel terrore, tutto il pomeriggio: a farlo passare non basta la notizia che da Erbil e Sulaymaniyah stanno arrivando dei rinforzi. Ogin, riceve un messaggino da una zia che vive negli Stati Uniti ma è amica di un capo della polizia di Kirkuk. La ragazza – racconta, parlando con lo sguardo fisso in un punto – inizia a dialogare con un capo della polizia dei peshmerga. Lei scrive alla zia che le gira i messaggi dell’alto ufficiale. È la svolta.

Il miliziano dice alle ragazze di scendere in cantina. È buia, fredda, inutilizzata da anni e piena di scarafaggi. Ma le ragazze, facendosi forza, vi accedono. «Siamo tutte qui», fa sapere con il telefonino Ogin. «Adesso spareranno per vedere se c’è ancora qualche terrorista nel palazzo», risponde il capo peshmerga. Dieci minuti dopo una raffica di bombe carta. Arriva la notte, ma il direttore Abu Durati ordina: «Rimanete ancora in cantina». Altri studenti di un pensionato vicino, verso le 22, scrivono via sms che «ci sono quelli del Daesh nelle vostre stanze».

Passa così tutta la notte fra sete e sonno convulso. Alle 4 di mattina Abu Durait, il direttore, dà il via libera: si può salire nella hall. Nessuno, però, osa uscire. Ogin è sempre in contatto con il capo peshmerga: la ragazza spiega quante porte ci sono dall’ingresso del garage alla hall del pensionato. I soldati iniziano a farle saltare e lanciano dei segnali concordati per farsi riconoscere: tre colpi di pistola di fila dopo aver fatto saltare la porta. Ogin risponde. Alle 6, dopo aver ispezionato tutti gli altri locali, sfondano l’ultima porta. Minas è paralizzata dalla paura: «Mi sono messa le mani sugli occhi. Non osavo guardare». Solo Ogin, che rispondeva ai segnali, ne era già certa: sono i poliziotti. Ma «la strada è tutta minata. Solo alle dieci ci fanno uscire. È finita», conclude Minas. Trenta ore come scudi umani del Daesh.