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Attentati in Egitto. Tra i cristiani che resistono: «Il terrore non vincerà»

Lucia Capuzzi, inviata a Tanta (Egitto) martedì 11 aprile 2017

Sarà ricordata come una domenica delle Palme insanguinata quella segnata, in Egitto, da due attentati, rivendicati dagli jihadisti del Daesh (acronimo arabo del sedicente Stato islamico). Gli uomini del Daesh hanno preso di mira la comunità cristiana copta in due diverse chiese del Paese nordafricano: un ordigno è esploso al mattino all’interno della chiesa di Tanta, cittadina sul delta del Nilo, provocando la morte di 30 fedeli e il ferimento di altri 78; qualche ora dopo ad Alessandria, cuore nevralgico della comunità copta, un kamikaze è entrato in azione di fronte all’ingresso della chiesa di San Marco, dove il patriarca Tawadros II aveva appena celebrato la funzione. Il bilancio fornito dal ministero della Salute per questa seconda strage è di 17 morti e 48 feriti. Si legge nella rivendicazione del Daesh, affidata all’agenzia di stampa del Califfato, Amaq: «I miscredenti devono capire che pagheranno con il sangue dei loro figli, che scorrerà a fiumi». Nella nota sono riportate anche le identità, probabilmente di battaglia, degli attentatori suicidi, due cittadini egiziani: Abu Ishaaq al-Masri a Tanta, Abu al-Baraa al-Masri ad Alessandria. Nella stessa Tanta, le forze di sicurezza hanno disinnescato, secondo un testata locale, due ordigni che erano stati piazzati nella moschea Sidi Abdel Rahim, al cui interno si trova un santuario sufi. Il presidente al-Sisi ha ordinato il dispiegamento di unità speciali dell’esercito per garantire la sicurezza nei luoghi più sensibili e l’instaurazione dello stato d’emergenza per tre mesi. Sono stati proclamati tre giorni di lutto nazionale. (F.Z.)

Il “pane della festa” è là. In bella vista. Il grande sacco bianco che lo contiene è aperto. «Servitevi per favore», dice una signora vestita di nero, seduta sull’entrata laterale di Mar Girgis. Allunga la mano per porgere una pagnotta ad ogni pellegrino. «Era il pane della festa. Ora è il pane del conforto», dice. Già perché la “festa” non c’è stata. Era prevista dopo la Messa: allora, come da tradizione, la comunità avrebbe condiviso il pasto insieme per celebrare la Domenica delle Palme. Una bomba piazzata sotto l’altare della chiesa copta ortodossa di Tanta, però, l’ha mandata in frantumi. Insieme alle vite di 30 fedeli. I feriti sono 78. Nessuno, nel frattempo, ha avuto il coraggio di buttar via il pane. «Sarebbe uno spreco ma anche una sconfitta. Un accodarci alla logica degli assassini, che 'buttano via' gli esseri umani perché per loro non hanno valore. Lo so è un piccolo segno. Vogliamo, però, dire che per noi tutto ha valore. Poi parecchi sono arrivati dal Cairo affamati». Ci vogliono almeno due ore – anche di più ora che c’è un posto di blocco ogni dieci chilometri – per raggiungere dalla capitale questo villaggio sterminato. I numeri sono da metropoli: quasi due milioni di abitanti, di cui circa mezzo milione cristiani copti. Eppure Tanta – situata sul Delta del Nilo – ha l’aria decadente di un paese sperduto. Sulle strade, dissestate, alcuni si spostano su carretti trainati da asini.

Mentre ai margini dell’asfalto gli edifici demoliti convivono con quelli di nuova costruzione in una surreale giungla di calcinacci e mattoni. Là, all’angolo tra le vie Suleiman e Mubarak, spunta la facciata bianca e squadrata di Mar Girgis. O San Giorgio. Da domenica, comunque, Tanta la ricorderà come la “chiesa della strage”. La città non aveva mai dovuto fare i conti in prima persona con la violenza estremista. «Non ci possono ancora credere che abbiano colpito da noi», sottolinea Hana. E proprio nel quartiere dove i cristiani sono maggioranza e con la minoranza islamica i rapporti sono molto più che di buon vicinato. «Siamo cresciuti insieme. Abbiamo studiato nelle stesse scuole. Ora condividiamo gli stessi uffici – racconta Nagy –. Ho più amici musulmani che copti. E non sono l’unico. Qua è così». Già qua è così. Forse è da ricercarsi in questa convivenza armoniosa, il motore che, a poche ore dal massacro, ha spinto la Tanta ferita a rialzarsi. Con dolore ma soprattutto con enorme coraggio. Unita. Cristiani e islamici insieme. Dalla prima mattina, una squadra di operai ha lavorato senza sosta per ripulire le tracce dell’orrore. E preparare i loculi per i 30 fedeli massacrati, in uno spazio sotterraneo ricavato sul retro del complesso. Nel pomeriggio, per terra, si notavano ancora frammenti di vetro e rametti di palma. Niente che, però, lasciasse intuire la portata della catastrofe avvenuta il giorno precedente. Se non fosse per l’intonaco troppo recente sotto le finestre, i cui vetri sono stati prontamente sostituiti, si sarebbe potuto quasi pensare a un 'dopo festa' un po’ caotico.

La macabra realtà la rivelavano i volti segnati di tanti, accorsi dall’intera zona per l’ultimo saluto ai morti: i funerali veri e propri erano stati già celebrati nella tarda serata di domenica, dato che la liturgia copta non prevede celebrazioni funebri durante la Settimana Santa. Le esequie sono state celebrate da Anba Paula, vescovo copto ortodosso di Tanta: ad esse hanno partecipato anche altri vescovi del sinodo copto. Ieri si è svolto, invece, un commiato cittadino, aperto a tutte le fedi. Così, Mar Girgis ha voluto ribadire che non è disposta a lasciarsi prendere dallo sconforto. Il suo è stato un grido muto e inequivocabile: il terrore non ha vinto. Perché là, fra quelle mura dolenti, copti e musulmani hanno detto addio fianco a fianco alle vittime del massacro. Non c’era tensione, nonostante la presenza dei militari, con le armi ben in vista, e di decine e decine in divisa e non. Solo l’arrivo di un metal detector, piazzato all’ingresso, ha provocato un po’ di fermento. Maria non spinge. Eppure la voglia di entrare per dare l’estremo saluto al padre è forte. L’ultima volta che l’ha visto era sull’altare per il servizio liturgico. Stavano per cominciare le Letture, quando la giovane ha avvertito la deflagrazione. «Tutto è diventato caldo e pesante. Eppure ero lucida. Continuavo a pensare: ora mi alzo e vado a prendere papà. Invece per lui non c’è stato niente da fare». La sua voce è bassa ma ferma. Quasi categorica quando afferma: «Paura? No, non ho paura». Poi aggiunge: «Credo nella Resurrezione», mentre la mano, quasi istintivamente, sfiora la piccola croce che questa giovane di vent’anni porta al collo. «Sono cresciuto in chiesa, non smetterò di andarci ora», le fa eco Yushi. «Se, per questo, devo rimetterci la vita, ne sarà valsa la pena», prosegue. Un’eventualità non così remota.

Per questo, la frase ha la pesantezza di una scelta meditata. Angie, 22 anni, piange il cugino Fedi, di 23. I genitori hanno affisso la foto del giovane alla porta, con una supplica: «Ricordatelo nella preghiera». «Era mio alunno», irrompe Sara, una bella ragazza di circa trent’anni. Ha il il capo coperto da un velo scuro che fa risaltare gli occhi verdi. Insegna chimica al liceo del quartiere. «In quest’atto barbaro e insensato, ho perso tre studenti», racconta. «Uno di loro, Bishoi, l’avevo visto a lezione sabato. Mi aveva detto che domenica non sarebbe venuto perché era la Domenica delle Palme. Gli ho fatto gli auguri e gli ho detto di riguardarsi. Il padre era morto qualche mese fa, e lui si era caricato la responsabilità di essere 'l’uomo di casa' per la madre e le tre sorelle. Dopo il diploma aveva deciso di mettersi a lavorare..». Sara, evidentemente islamica, non si da pace: «Questa barbarie non rappresenta il Corano. Noi non siamo questo. No, no». Mina le si fa accanto: «Lo sappiamo che l’islam non c’entra. Chi compie simili efferatezze è gente venuta da fuori. Terroristi, non musulmani». «Il Daesh», sussurra Yussuf. Il Califfato si è affrettato ad attribuirsi la doppia strage di domenica – quella a Tanta e poi alla cattedrale di San Marco ad Alessandria –, attraverso l’agenzia ufficiale Amaq. A colpire a Mar Girgis, secondo quest’ultima, sarebbe stato un non meglio precisato Abu Isaac al-Masri. Realtà o propaganda a Tanta fa poca differenza. «Se non è il Daesh, è qualche gruppo affine. Vogliono distruggere l’Egitto, non solo i copti», tuona Andris. «Che c’entra la religione – afferma Mohammed, poliziotto –. Io sono islamico e domenica ero orgoglioso di essere stato chiamato qui a difendere i fratelli copti. Purtroppo non è bastato. Stavo entrando in servizio quando ho visto i muri tremare. I colleghi mi hanno fatto entrare. C’era sangue dappertutto, per terra i corpi, alcuni sfregiati. Si notavano molti bambini e ragazzi».

«Abito a due strade di distanza – sottolinea Rana –. Ero ancora a casa mentre a Mar Girgis si celebrava la Messa. Il turno di lavoro cominciava più tardi. Quando ho sentito lo scoppio, uscita d’istinto. Sapevo che il mio amico Isa doveva andare a celebrare la Domenica delle Palme. Sono corsa a vedere. Per fortuna lui stava bene. Inshallah». Yadira non è stata, invece, altrettanto fortunata. «Ho perso mio fratello. Lui non c’è più», dice la giovane che, per Hami, ha preparato una croce di palma ricoperta di fiori bianchi. La mostra ai passanti, nascondendo la tristezza dietro un sorriso. «Gli piaceva preparare le palme. Lo faceva fin da quando era bambino. Aveva imparato a intrecciarle e, ogni anno, per la Messa d’inizio della Settimana Santa, ne portava una di sua creazione. Mi piace pensare che ora sia in Cielo, ad agitare la sua palma di fronte a Gesù». Nella sua frase riecheggia, inconsapevolmente, quando scritto dal Patriarca Tawadross al vescovo di Tanta e letto da quest’ultimo durante i funerali: «Ci siamo congedati dai nostri cari martiri della chiesa di Mar Girgis a Tanta. Loro sono stati chiamati in cielo nel giorno di festa, per per portare i rami di palma e d’ulivo davanti a Cristo stesso».