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IL RAPPORTO. Sud Sudan, «pulizia etnica»

Matteo Fraschini Koffi mercoledì 12 giugno 2013
Pulizia etnica. Le due parole accompagnano il passaggio di mano in mano di un rapporto – classificato come «confidenziale» – redatto lo scorso mese da alcune agenzie delle Nazioni Unite (Unocha, Acnur, Pam, Fao) in collaborazione con altre organizzazioni umanitarie. Il documento, che Avvenire ha potuto visionare, contiene accuse gravissime: la popolazione dei murle, presa di mira dall’esercito sud-sudanese (Spla), è stata vittima di «uccisioni, stupri, rapimenti, torture, incendi delle abitazioni, saccheggi, massacri di bestiame e distruzione dei campi coltivabili». Il tutto, lontano, troppo lontano, dai riflettori della comunità internazionale.Dopo diversi incontri con i rappresentanti dei murle arrivati nella capitale sud-sudanese, Juba (in tutto, circa 11mila persone), il rapporto descrive le ragioni per cui lo Stato del Jonglei si sta progressivamente svuotando. «I membri della comunità murle – si legge nello studio – sono vittima del ciclo di violenze che ha colpito Pibor e le contee limitrofe». Violenze che (nonostante la presenza di alcuni gruppi armati, tra i quali quello dei guerriglieri associati al leader ribelle David Yau Yau), i murle hanno attribuito al Governo del Sud Sudan (Goss), identificato come «il principale mandante delle violazioni dei diritti umani perpetrate nell’area».«Diverse donne e bambine sono state rapite dall’Spla – hanno dichiarato gli sfollati murle che sono riusciti a fuggire – mentre le abitazioni e i sacchi di cibo sono stati distrutti o derubati dai soldati». Sono oltre 150mila i civili che hanno lasciato il Jonglei con l’intensificarsi della campagna dell’Spla contro i ribelli cominciata verso l’inizio dell’anno. «Tali operazioni da parte dell’Spla fanno pensare a una vera e propria pulizia etnica», ha commentato sotto anonimato un’operatrice umanitaria associata al rapporto, «purtroppo, però, è difficile documentare con più precisione le accuse poiché la zona è tutt’ora inaccessibile». Il Jonglei, il più grande dei dieci Stati del Sud Sudan, siede sopra enormi riserve petrolifere non ancora sfruttate a causa della ventennale guerra civile con il Nord finita nel 2005. Gli interessi nella regione sono delicatissimi. «Dopo aver diviso l’area in tre blocchi, B1, B2 e B3 – ha dichiarato settimana scorsa Henry Odwar, presidente del Comitato parlamentare sud-sudanese per l’energia e le miniere –, la Total (Francia) ha iniziato a collaborare con la Exxon Mobil (Usa) e la Kufpec (Kuwait) nell’esplorazione petrolifera del blocco B1 in Jonglei». Le tensioni con il Sudan, accusato dal presidente sud-sudanese, Salva Kiir, di «fomentare le ribellioni in Jonglei», sono sempre altissime. Il Goss, infatti, sta lavorando da tempo all’esportazione del proprio greggio, non più verso nord, ma attraverso l’Africa orientale e il Corno d’Africa, in particolare Gibuti. Ma per tali progetti è necessario trovare le risorse petrolifere adatte. Nel mezzo di queste dinamiche è la popolazione civile a soffrire perché incapace di difendersi.