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Intervista. Pittella (Pd): «Stop alla politica del rigore: servono nuovi investimenti»

Roberta D'Angelo sabato 7 gennaio 2017

Gianni Pittella (Ansa)

La crisi economica non si è risolta. La minaccia del terrorismo fa paura. E l’ondata di immigrati non viene gestita come si dovrebbe. L’Europa del 2017 ha davanti una serie di sfide, ma per vincerle occorre «rovesciare il rapporto tra Parlamento Europeo e Consiglio». Gianni Pittella del Pd, capogruppo dei Socialisti e Democratici a Strasburgo, per i quali si candida alla presidenza del Parlamento europeo, vuole «uscire dall’immagine di Palazzo lontano dai bisogni dei cittadini».

L’Europa è ormai sinonimo di sacrificio economico. Come si può modificare il sentimento diffuso?

Per vincere le sfide che abbiamo davanti, servono misure efficaci in tema di politica economica. La crisi non si è risolta e non si risolverà se non ci sarà una politica espansiva. La politica del rigore cieco e sordo alla Schauble è stata un veleno. Ha distrutto posti di lavoro e migliaia di imprese. Abbiamo bisogno di politiche che consentano investimenti pubblici nei settori dove si creano posti di lavoro. Se non si cambiano le regole di bilancio, anche superando il fiscal compact, non ne usciamo. La crisi che non finisce mai incrementa i populismi. È un rischio, alla vigilia del voto in Francia, Germania, Olanda e forse anche in Italia? Bisogna uscire dal vecchio schema della grande coalizione tra popolari, socialisti e liberali, che è definitivamente tramontata e deve lasciar posto ad una maggiore identità di posizioni politiche e culturali, perché in Europa il bipolarismo vero non può essere tra forze antisistema e forze del sistema, ma quello fisiologico della destra moderata e conservatrice e forze della sinistra socialista e riformista. Nello schema della grande coalizione abbiamo dato fiato alle forze antisistema.

Insomma, a 60 anni dai Trattati, sembra un bilancio poco roseo...

No, ma è tempo di aprire una riflessione forte del Parlamento, perché dia un contributo centrale alle celebrazioni dei Trattati, che non siano solo retoriche celebrazioni, ma a cui seguano modifiche del sistema decisionale, seguendo le speranze di quanti sottoscrissero i Trattati.

Però la Brexit è un campanello d’allarme?

Non credo. La Ue ha dato moltissimo in termini pace, di solidarietà, con Schengen, l’Erasmus... Detto questo, abbiamo avuto delle sconfitte, derivate da un sistema decisionale troppo farraginoso, dove la centralità è del Consiglio europeo. Il Parlamento spesso è stato capace di decidere su alcune materie, ma le decisioni si sono fermate al veto del Consiglio Europeo. Questo sistema va rovesciato, l’Europa deve dare voce ai cittadini. Il Parlamento deve essere un riferimento.

Non si rischia un contagio da Brexit?

Non mi pare un esempio dalle conseguenze esaltanti. Piuttosto dobbiamo aprire il negoziato e gestirlo non in modo punitivo. Aspettiamo la notifica del governo britannico, noi siamo pronti, con un atteggiamento costruttivo.

Sono passati anni e sugli immigrati non si è risolta l’emergenza. Anzi, si è aggiunta la paura del terrorismo.

Il Parlamento ha votato il piano per l’immigrazione, fermato dai governi. Una delle cose principali che va fatta è la cooperazione delle intelligence e, a medio termine, la costituzione di un Fbi europeo.