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Stati Uniti. Caccia ai migranti, ma c'è chi protegge le famiglie prese di mira

Elena Molinari, New York giovedì 18 luglio 2019

Agenti dell'Ice (Immigration and Customs Enforcement) a caccia di immigrati (Ansa)

Erano le 6 del mattino di lunedì quando la 17enne Jasmin Vásquez ha visto gli uomini dell’Ice, "Immigration and Customs Enforcement", il braccio operativo delle autorità d’immigrazione Usa, in tuta mimetica e con giubbotti antiproiettile, entrare nel palazzo del Bronx dove vive con la sua famiglia. Jasmin non ha esitato: ha fatto una foto degli agenti, l’ha pubblicata su Facebook e ha invitato i suoi vicini a chiudersi in casa. Almeno due famiglie dello stesso edificio, con i genitori honduregni e privi di documenti di soggiorno e figli statunitensi, hanno visto il messaggio e sono rimasti in silenzio quando hanno sentito bussare, finché gli agenti non se ne sono andati.

Le incursioni su larga scala dell’Ice volte a deportare almeno 2mila immigrati illegali che hanno ricevuto un foglio di via sono state ostacolate nei giorni scorsi da atti di collaborazione e solidarietà come questo. Gesti che hanno coinvolto avvocati, vicini, chiese, datori di lavoro e associazioni per i diritti umani, tutti impegnati a proteggere le famiglie prese di mira dalle retate volute da Donald Trump. Ma hanno lasciato comunque una scia di paura e di profonda incertezza nelle comunità immigrate. Il presidente Usa ha fatto sapere che i raid iniziati nel fine settimana sono stati «molto positivi» e che sarebbero continuati. I numeri degli arresti, in realtà, appaiono per ora limitati a poche centinaia. Ma in tutto il Paese, molti immigranti continuano a rimanere nascosti, evitando luoghi pubblici.

Nel distretto newyorkese di Queens, le vie commerciali del quartiere latino di Jackson Heights sono stranamente tranquille negli ultimi giorni. Christina Wang, proprietaria di un piccolo supermercato, spiega che alcuni dipendenti latinoamericani non si sono presentati al lavoro. E Antonia Salgado, direttrice di un centro estivo per bambini, conferma che la maggior parte delle classi sono semivuote e che gli insegnanti hanno cominciato a spiegare agli studenti cosa fare se l’Ice si presenta. «Diciamo loro di non rispondere», fa sapere. Nel complesso popolare Bronx dove vive, Jasmin è diventata l’orgoglio del vicinato per aver impedito alcuni arresti, anche se almeno una decina di persone sono state portate via.

Una delle famiglie che ha visto il suo avvertimento è ancora scossa dall’accaduto. «Quando ho sentito il campanello, non ho detto niente – dice un ragazzo di 21 anni che vive con un cugino e la sua famiglia –. Non ho fiatato e ho fatto segno ai bambini di non aprire bocca. Avevo molta paura, non per me, ma per mio cugino e sua moglie, che sono irregolari». I figli di 9 e 6 anni della coppia non escono di casa da allora. «Non mi fido, potrebbero tornare – dice il marito, un muratore –. Ho cancellato tutti gli impegni».

Gli agenti non possono entrare a forza nelle case, ma secondo gli avvocati che hanno difeso gli immigrati soggetti a deportazione, è probabile che utilizzino stratagemmi psicologici per convincere le persone senza documenti ad aprire la porta. Win, il più grande gestore non profit di rifugi per famiglie con bambini a New York, che ospita oltre 1.200 persone in 11 centri, ha chiesto ai residenti di cercarsi una sistemazione alternativa per qualche giorno. «Non potevano dircelo esplicitamente, allora ci hanno detto che la nostra stanza sarebbe stata molto calda e di tornare quando le cose si saranno raffreddate», spiega una ragazza di 17 anni, che vive in uno dei rifugi.

Alla paura dei raid, si aggiunge il terrore delle famiglie arrivate al confine meridionale Usa. Queste temono di essere respinte o separate a causa della nuova misura che costringe i richiedenti asilo ad attendere il loro turno in un Paese terzo. È accaduto, secondo quanto riportano i media Usa, la scorsa settimana a una bambina di 3 anni dell’Honduras che è stata invitata a fare una scelta impossibile. Gli agenti le hanno chiesto se voleva rimanere negli Usa con la mamma o con il papà. I genitori, Tania e Joseph, erano fuggiti dal loro Paese con i tre bambini a causa di violente minacce da parte della banda MS-13. La famiglia è stata trasferita a Júarez, in Messico, nell’ambito del programma Migrant protection protocols dell’Amministrazione Trump, che richiede ai richiedenti asilo di aspettare fuori dagli Stati Uniti mentre le loro richieste sono prese in esame. Ma la figlia più giovane, Sofi, soffre di una grave malattia cardiaca che ha spinto un medico a chiedere agli agenti di frontiera di lasciarla negli Stati Uniti. In risposta, un funzionario ha dato alla piccola la scelta: un genitore poteva rimanere con lei, l’altro sarebbe dovuto tornare in Messico.

È per prevenire situazioni inumane come questa che il cardinale Daniel DiNardo, presidente della Conferenza episcopale americana, ha scritto direttamente a Trump. «Condanno questo approccio – scrive DiNardo – perché ha creato un clima di paura nelle nostre parrocchie e sta causando un’inaccettabile sofferenza in migliaia di bambini al confine, poiché le autorità doganali separano le famiglie». Il presidente dei vescovi Usa dichiara «fuoriviante e insostenibile» il metodo utilizzato dall’agenzia per l’immigrazione che così vorrebbe dissuadere gli abitanti del Centroamerica dall’esodo. Ma nonostante le politiche migratorie e i recenti attacchi a quattro deputate democratiche di colore – condannati fortemente in quanto «razzisti» da una mozione della Camera Usa – , Trump è salito al 50 per cento del gradimento popolare, secondo un sondaggio Rasmussen.