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Il video. Il neonato salvato dalle bombe, la vita e la guerra ad Aleppo

Fabio Carminati sabato 24 settembre 2016
In ogni terremoto, in ogni guerra, in ogni catastrofe, quando tutto sembra perduto e con esso la speranza c’è sempre un gesto, un’immagine che ridà un colpo alla vita: ad Aleppo ci sono stati gesti eroici, salvataggi, messaggi lanciati nei momenti più bui di anni di assedio (più o meno serrato). E l’immagine di ieri, del video distribuito dai Caschi bianchi sul bimbo estratto dalle macerie di un bombardamento, fa forse parte di questa “iniezione” di buono che ogni tanto la macabra cronaca di cinque anni di conflitto ci regala.
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Frutto certo di un’iconografia classica che contrappone il gesto da lacrime alle lacrime del nulla lasciato dal ferro e dalla polvere da sparo delle bombe. Serve però a riflettere. Senza forse affannarsi solo a voler etichettare questi operatori che scavano tra le macerie (sono un gruppo filo-opposizione, è la riserva più pressante che arriva contro i White Helmets), per cercare le ragioni di tutto questo “volersi pubblicizzare”.  Andrebbe fatto un passo oltre, spogliandosi del “pro e del contro” perché, insegnano, “il bene non ha bandiere se il fine è solo quello”.  Così quell’immagine potrebbe riportare nei giusti termini un conflitto che emerge a singhiozzo dalle pagine dei giornali. Per giorni è una guerra “carsica”, poi la strage torna a fare notizia. Scandalizza, commuove e poi scomparire per altri giorni dalle pagine e dai siti di informazione. Mentre ad Aleppo si muore, ad Hama, ma anche alla periferia di Damasco o lungo il confine, mai tracciato sulle carte, tra il Califfato e ciò che resta della Siria. Un’immagine di vita non per esorcizzare la morte, ma soprattutto per rispondere a chi sulla tregua sta speculando da mesi. Usa, Russia, Siria, Iran, Arabia Saudita, e l’elenco potrebbe continuare. Su corridoi umanitari negati, su no-fly zone irrealizzabili, su cessate il fuoco che resistono solo il tempo dell’annuncio. Su più di trecentomila morti in cinque anni, tredici milioni di profughi interni e costretti alla fuga all’estero. Sulla gente di un Paese che è ormai sempre più difficile chiamare, semplicemente, Siria.