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Senza i soldi del fondo sovrano non si riparte

GIORGIO FERRARI sabato 2 aprile 2016
L’analisi. È una strada in salita la sua, non ci sono dubbi. Basta vedere come il presidente Fayez al-Sarraj si è presentato a Tripoli (dal mare, su una motovedetta, perché dal cielo non lo lasciavano atterrare), chiudendosi subito nella base Abu Sittah della Marina militare e dando immediata dimostrazione – visto che ha affidato la propria incolumità non alla polizia e nemmeno all’esercito, ma alle milizie lealiste di Misurata – di come in Libia lo Stato sia tutto da ricostruire dalla fondamenta e le istituzioni qualcosa di ancora nebuloso e indefinito, bisognoso soprattutto di legittimità. Da qualche parte tuttavia, sottolineano gli ottimisti, si doveva pur cominciare. Un esile governo, quello di al-Sarraj, riconosciuto e sostenuto dall’Occidente e dall’Onu e guardato in cagnesco dal resto delle mille entità libiche: da quelle tribali che condizionano e frenano l’allestimento dell’unità nazionale con i loro particolarismi e i loro ricatti, per non dire di entrambi i governi regionali, quello di Tripoli e quello di Bengasi, come sempre in profonda inalienabile divisione, con i mezzo Sirte e la fascia costiera dove il Daesh ha creato basi e consenso dopo la rotta siriana. Ma non sottovalutiamo neppure le qualità di al-Sarraj: tripolino, figlio d’arte (il padre lavorò per re Idris, lui medesimo per Gheddafi), ha imparato a mediare e soprattutto a far leva sulle ambizioni del pulviscolare mondo tribale libico. Non sarà un caso infatti che già a poche ore dal suo arrivo una decina di città della costa occidentale, tra cui Zawiya e Sabrata, hanno rotto l’alleanza con il Congresso nazionale generale (Cng) di Tripoli appoggiando il governo di unità nazionale di Sarraj mentre il suo premier Khalifa Ghwell lasciava la capitale libica per rifugiarsi a Misurata, cosa che si è affrettato a fare anche il presidente del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahmain, che si sarebbe invece rifugiato a Zuwara, sua città natale. Ma perfino da Ajdabiya, nella Libia orientale, anche Ibrahim al-Jathran annunciava il suo sostegno al governo di concordia nazionale. Piccoli ma significativi segnali. Nelle stesse ore al-Sarraj riceveva a Abu Sittah il governatore della Banca centrale libica Saddek Elkaber insieme ai capi delle 13 municipalità e del Consiglio municipale Ma ciò che tutti vorremmo sapere è cosa accadrà domani, cosa sarà della missione Liam a guida italiana e chi proverà a remare contro. Di di Tripoli. certo la Libia ha immenso bisogno di sostegno, di aiuto, di cooperazione e anche di qualcuno che insegni a un popolo che per quasi cinquant’anni ha conosciuto solo la legge della jamairiya cosa significhi governare e guidare uno Stato di diritto. E poi c’è il denaro, sul quale è bene non chiudere gli occhi: un fiume di denaro, dal fondo sovrano libico congelato dalle banche occidentali ai 22 miliardi di dinari scomparsi dalle casse dello Stato fino ai 1.500 miliardi di dollari che il business petrolifero una volta tornata a pieno regime la National Oil Company può rappresentare per i privilegiati – tra cui l’Eni – che si spartiscono la torta. Il denaro, non nascondiamocelo, serve a molti scopi: anche a comprare il consenso dei riottosi, a tacitare l’ingordigia dei piccoli clan, ad addomesticare i franchi tiratori in Parlamento e perfino a disarmare i tagliagole che picchettano le strade dell’interno reclamando il pedaggio per ogni automobile che passa. Non a caso l’ambasciatore libico all’Onu, Ibrahim Dabbashi, ha chiesto al Consiglio di Sicurezza un’esenzione per la Libyan Investment Authority (che con circa 67 miliardi di dollari e la gestione degli affari nazionali libici e soprattutto degli introiti petroliferi è considerato il più grande fondo sovrano dell’Africa) dalle sanzioni disposte dalle Nazioni Unite, affinché il fondo sovrano libico possa gestire gli asset congelati evitando così miliardi di dollari di perdite ogni anno. In mezzo, oltre alla rissosa e secolare ostilità fra le tre anime della Libia – quella cirenaica, quella tripolina e quella del Fezzan – che spesso lascia presagire la possibilità di una divisione del Paese nelle tre grandi entità territoriali, c’è il Daesh. Il Califfato non ha in realtà una grande presenza numerica sul territorio, ma è vero comunque che molti dei suoi miliziani sono fuggiti dalla Siria e dall’Iraq riparando sul meno controllato territorio libico. E anche qui le divisioni si sprecano: da un lato c’è il generale Khalifa Haftar, sostenuto dall’Egitto e nemico dichiarato sia del Daesh sia di quel governo promosso dagli occidentali che lo ha privato del rango di ministro, dall’altro c’è la prudenza e la riluttanza delle nazioni occidentali ad intervenire militarmente sul suolo libico. Estirpare i tentacoli del califfo non sarà impresa di giorni né di mesi. La strada per il premier Sarraj, come si è detto, è molto lunga e il cammino è appena iniziato. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il premier libico Fayez al-Serraj a Tripoli (AnsaWeb)