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LA RIVOLTA EGIZIANA. Se crolla il «faraone» il Medio Oriente rischia il caos

Federica Zoja sabato 29 gennaio 2011
Casca o non casca? Con questo dubbio amletico sulle sorti del faraone Hosni Mubarak, inconcepibile anche solo qualche giorno fa, è trascorsa la giornata di ve­nerdì, iniziata con l’oscuramento totale delle comunicazioni (telefoni fissi e mobili, internet, radio) eppure rivelatasi la più esplosiva dall’i­nizio delle agitazioni sociali in Egitto, martedì scorso.Sotto gli occhi sgranati di analisti, diplomatici, politici di tutto il mondo, che hanno potuto se­guire su al-Jazeera e altre tv satellitari gli scon­tri al Cairo, la tradizionale rassegnazione egi­ziana è andata in frantumi come mai prima. Si è detto: Mubarak non è il tunisino Zine El Abi­dine Ben Ali, impossibile scalzarlo. Eppure la rabbia popolare sta facendo scricchiolare an­che il suo trono trentennale.Ma l’Egitto non è la Tunisia, il Cairo ha un ruo­lo strategico nel Mediterraneo, a maggior ra- gione in questo primo scorcio di 2011. Ora che il Libano oscilla pericolosamente, in bilico sul­l’orlo di una nuova guerra civile, sotto gli occhi compiaciuti degli sciiti di Hezbollah; ora che i “palestinian papers” (le carte diffuse da Wiki­leaks) hanno assestato un nuovo duro colpo al­l’autorevolezza dell’Autorità nazionale palesti­nese (Anp) nel processo di pace con Israele, dando nuovo fiato alle trombe di Hamas; ora che l’intero Nord Africa sembra aver raggiunto la saturazione dopo decenni di spietate oligar­chie. L’Egitto è lì, chiave di volta di un com­plesso architrave.Un tassello di 80 milioni di cittadini compres­so su tutti i fronti: a Est, dal dramma di un mi­lione e 700 mila palestinesi di Gaza chiusi in gabbia e infiltrati da uomini di al-Qaeda; a O­vest, dall’imprevedibile Libia del colonnello Muammar Gheddafi; a Sud, dal colosso suda­nese scosso da divisioni di ogni genere. Per tutto questo e altro ancora (investimenti stranieri che ammontano a parecchie centinaia di miliardi di dollari), lo stesso Mubarak o il blocco di interessi da lui rappresentato po­trebbe essere “obbligato” a succedere a sé stes­so, tirando fuori dal cilindro prima del tempo un successore.Con o senza la Rivoluzione dei gelsomini in Tu­nisia, il 2011 sarebbe stato un anno cruciale, con le elezioni presidenziali in agenda a set­tembre. Mubarak, in sella da cinque mandati consecutivi, è spesso costretto a soggiorni all’e­stero per cure mediche: secondo fonti di intel­ligence sarebbe già stato rimpiazzato da un di­rettorio di ministri fidati sostenuto dall’eserci­to. Fra di loro Omar Suleiman, numero uno dei servizi segreti, intermediario fra fazioni pale­stinesi, e fra Israele e Anp; Mohammed Sayyed Tantawi, ministro della Difesa, generale; Habib El Adly, ministro degli Interni, e altri fedeli. Fra di loro il probabile successore.La stella di Gamal, figlio 47enne del raìs, sem­bra ormai tramontata: inviso alla vecchia guar­dia del Partito nazionale democratico e all’e­sercito, Gamal si vede sempre di meno nelle occasioni ufficiali. Con apprensione la stam­pa israeliana segue gli sviluppi nel Paese con­finante, l’unico fra gli Stati della Lega araba, in­sieme alla Giordania, ad aver firmato un trat­tato di pace (1979). Scrive il quotidiano Haa­retz: «Gli analisti ritengono che probabilmen­te gli Stati Uniti vogliono evitare di accrescere l’incertezza politica (in Egitto) abbandonan­do Mubarak». Un auspicio, più che una affer­mazione.Perché nessuno può sapere chi sceglierebbero gli egiziani: Mohammed El Baradei? Oppure un esponente della Fratellanza musulmana? Il pri­mo è sceso nell’agone politico da appena un anno dando vita all’Assemblea per il cambia­mento, ma non ha saputo elaborare un pro­gramma convincente. La partecipazione alle manifestazioni di ieri e il suo arresto domiciliare potrebbero averne rilanciato le aspirazioni. La confraternita, invece, benché bandita dalla vita politica e costretta alla clandestinità, è or­mai uno Stato nello Stato. Là dove le istituzio­ni sono assenti, i Fratelli vantano una rete ca­pillare di ambulatori, studi legali, uffici di col­locamento, negozi e supermercati, scuole. La Fratellanza, nelle sue correnti moderata o più radicale, non è una realtà estranea alla società. Con messaggi contraddittori: talvolta anti­israeliani e anti-occidentali, talvolta moderati. Come contraddittorio è l’atteggiamento Usa: ufficialmente solidale con il presidente, ma, se­condo i cablogrammi di Wikileaks, pronto a fi­nanziare le opposizioni tutte con almeno 150 milioni di dollari nel biennio 2008-2009.