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La rotta balcanica - Reportage. Minivan, biciclette e fucili: così si arriva in Serbia

Nello Scavo, inviato (foto e testo) martedì 1 settembre 2015
(Gevgelija, Macedonia) Il benvenuto è un presagio nero su un graffito bianco: una serie di svastiche tracciate su vagoni color ruggine. Dopo una notte di marcia - chi a piedi, chi in bici, chi con taxi pagati come limousine - la sosta in una stazione ferroviaria di uno sperduto villaggio macedone riserva una sorpresa sinistra. Qualcuno nel gruppo di 200 profughi, in prevalenza siriani, teme sia uno dei convogli ferroviari messi a disposizione dal governo per facilitare l’addio alla Macedonia. I vagoni per deportati sono solo una stupida minaccia. Tanto basta, però, a risvegliare paure per un attimo estinte dalle buone notizie. Come quella dei 38 migranti a bordo di un barcone che si è ribaltato a Kos, in Grecia. «Ci hanno chiamati, sono tutti salvi», assicura Hassan, che su quel gommone aveva amici. Basta un telefonino collegato ai social network per tenersi in contatto. Chi è avanti indica pericoli e suggerisce percorsi e nomi.

«Ci siamo mossi due settimane fa dalla Turchia», racconta Hassan mentre con la schiena curva procede come una chiocciola che si trascina quello che resta dei propri averi: pochi vestiti, qualche monile regalato alla moglie, i giocattoli per il figlio di sei anni, i quaderni per non dimenticare l’aritmetica neanche durante l’avventuroso pellegrinaggio. A lui e agli altri cento mancano trenta chilometri, prima di raggiungere Veles, dove ad attenderlo ci saranno i bus (a pagamento) diretti al confine Nord.

«In un giorno ce la faremo. Siamo allenati, purtroppo». La polizia ha cambiato atteggiamento. «Eseguiamo gli ordini – si schermisce uno degli ufficiali alla frontiera con la Grecia –, ma a un certo momento anche tra i miei ragazzi sono nati malumori. Non volevano più usare i manganelli. C’erano donne e bambini e anche tra di noi ci sono figli di profughi della ex Jugoslavia». Temendo un ammutinamento, da Skopje è arrivato il contrordine: «Fateli entrare e consegnategli un lasciapassare di 72 ore». Quando si è sparsa la voce, tra i rifugiati è partito un applauso. «Solo che non avevamo né computer né elettricità e dalla capitale ci hanno messo una settimana a mandarceli». Sette giorni per far fare 150 chilometri a quattro pc portatili.

Da venerdì 2mila persone al giorno si mettono in cammino cercando il modo più rapido e sicuro per compiere i 170 chilometri che separano confine greco e serbo. In pochi attraversano la Macedonia interamente a piedi. Intorno ai profughi si è sviluppata un’economia informale, fatta di biciclette usate, motocicli da buttare, vecchi minivan rimessi in sesto per un’ultima corsa.

Da alcuni giorni circolava una leggenda, quella di profughi accompagnati da uomini armati, ma in borghese. Tutto vero. All’inizio alcuni giornalisti di un’emittente locale, che per timore di ritorsioni anche governative chiedono di non essere citati, pensavano si trattasse di militari incaricati di far accelerare il passo ai profughi. «Invece, si tratta di mafiosi macedoni, bulgari, serbi e kosovari, che tengono al sicuro il "carico". A Kumanovo, al confine serbo, passano di mano ai trafficanti kosovari della valle di Prestovo. Li abbiamo visti con i nostri occhi», assicurano. Una presenza apparentemente senza ragione. Non nei Balcani: «Ci sono dissidi tra bande di contrabbandieri e ogni clan protegge i "propri" migranti».

Quando finalmente la carovana che abbiamo seguito da Gevgelija, la piccola Las Vegas macedone al confine con la Grecia, raggiunge Prestovo, in Serbia (ma sotto l’influsso delle gang di Pristina), i più si sentono sollevati. Non è il muro d’Ungheria a preoccuparli, ora che sono qui sanno che in un modo o nell’altro resteranno in Europa. «Siamo in troppi, non possono tenerci qui. È questione di tempo», osserva Aisha, 25 anni e una laurea in Legge a Damasco. «Tutti quelli che conosco si stanno muovendo. Molti lasciano i campi profughi in Turchia perché in Siria non c’è speranza di tornare».

Non fa in tempo a spiegarlo che Hassan riceve un sms da Atene. «Altri 2.500 ce l’hanno fatta e in due giorni raggiungeranno Salonicco, poi faranno il nostro percorso», riferisce. I media greci moltiplicano: 4mila persone soccorse solo ieri. Qualche giorno fa a Pristina un "mediatore" sedicente ceceno ci aveva illustrato i percorsi studiati dai trafficanti per aggirare il muro ungherese. Ieri si è appreso che Croazia e Bosnia si stanno attrezzando. Il premier croato Zoran Milanovi ha annunciato che il Paese «aspetta a braccia aperte i rifugiati». In Bosnia il dipartimento per gli Affari Esteri ha annunciato che le autorità presidiano i confini naturali, i fiumi Sava e Drina. La nuova porta d’Europa.