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Intervista. «Salvai quelle persone per dire no alla follia omicida»

Claudio Monici venerdì 4 aprile 2014
Pierantonio Costa era il console italiano in Ruanda, nel 1994. Durante il genocidio, dopo quel fatale 6 aprile, per due mesi or­ganizza, e personalmente conduce, il salvataggio di circa 2.000 persone, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio, portandoli fuori da un Paese caduto in un inferno di inaudita barbara vio­lenza. Lo fa dilapidando le sue risorse di imprenditore.Console Costa, cosa ricorda di quel primo giorno di venti anni fa? Immagini precise. L’inizio di una bat­taglia non si dimentica. Vedo mia mo­glie con i bambini che si organizza in casa, mentre fuori le sparatorie au­mentavano. Con la radio portatile si scambiavano le informazioni e racco­glievo le richieste d’aiuto. Ma nessu­no si poteva muovere da casa.Vi aspettavate quello che poi è acca­duto, un genocidio? No, assolutamente no. Non l’ho mai creduto possibile, quel 6 aprile. Come è potuta accadere questa apo­calisse? Era stata programmata. Occorreva so­lo l’occasione per scatenarla. L’ora ze­ro è scattata con la morte del presi­dente Habyarimana. Tutte le parti in conflitto avevano interesse a fare quel colpo. Anche se dalla parte del presi­dente c’era una classe dirigente che con la firma degli accordi di pace, in discussione ad Arusha, Tanzania, per­deva ogni garanzia di amnistia. Do­vendo rispondere dei massacri di tut­si avvenuti tra il 1992 e 1993. Ma la pace sembrava a portata di ma­no? Non ci sarebbe mai stata una pace tra governativi hutu e forze ribelli tutsi, allora. Quegli accordi stabilivano che il nuovo esercito del Ruanda doveva essere composto per il 60 per cento da soldati dell’Esercito regolare, hutu, e 40 per cento soldati del Fronte pa- triottico, tutsi. Tempo un paio d’anni dopo Arusha e un colpo di stato a­vrebbe sparigliato le carte. Mi sba­gliavo. Tutto è stato giocato in quei 100 giorni di follia. Le liste con i nomi del­le persone da eliminare erano già pronte da tempo. E il fuoco della vio­lenza ha bruciato tutto in un attimo. La comunità internazionale dove ha sbagliato? A Kigali c’era una missione Onu, la Mi­nuar. Milleottocento soldati, di cui 400 belgi, armatissimi e capaci di com­battere. Se avessero fatto capire che sarebbero intervenuti in forze, sì, ci sarebbero stati dei morti, forse deci­ne di migliaia, ma la tragedia non a­vrebbe assunto le dimensioni che co­nosciamo. Però ci sarebbero stati an­che dei bianchi morti. Dunque chi poteva fare qualcosa ha preferito astenersi? Una settimana dopo la morte del pre­sidente, non c’era più un bianco a Ki­gali. Ma c’erano sempre i 400 militari belgi e i 1.400 soldati della Minuar. Poi hanno chiuso bottega e sono partiti. Perché si rischia la propria vita per salvare quella di un altro? Sono entrato in quella spirale perché da principio dovevo farlo come con­sole italiano per andare a cercare i cir­ca 190 nostri connazionali, molti reli­giosi e volontari. Poi quando ho capi­to che le barriere dei machete le po­tevo passare corrompendo la follia o­micida, non ho smesso di prendermi i miei rischi. Non sono un eroe. Ho fat­to quello che ho fatto perché mi sono reso conto che potevo farlo. Quante volte si è sentito dare del paz­zo ad andare avanti e indietro da quell’inferno? (ride, è l’unica volta ndr ). Non lo so. Non ricordo. Quando sono entrato in un orfanotrofio e ho visto tutti quei bambini che correvano dei rischi e­normi, in quel momento ho solo pen­sato a come portarli in salvo. C’è qualcosa che non riesce a perdo­narsi, qualcosa che non è riuscito a fare? Sì, ci sono delle cose che non sono riu­scito a fare e che avrei dovuto fare. Ho visto uccidere e ho visto morire e non sono riuscito a impedirlo. Esiste ancora il pericolo che la storia di 20 anni fa si ripeta? È una domanda che mi faccio spesso. Il ruandese non dice mai quello che pensa veramente. Quello che per lui è importante è cosa il suo superiore pensa di lui. La guerra ha fatto del ma­le a tutti quanti e la ferita fa ancora male. Ma c’è il fattore età. Vent’anni dopo, più del 50 per cento dei ruan­desi, oggi, sono giovani e non porta­no con loro implicazioni legate al ge­nocidio, avevano al massimo cinque anni allora. E questa cosa può valere la speranza di ricostruire una convi­venza nuova.