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Argentina. A Rosario un Rio di coca tiene in ostaggio i ragazzini delle villas

Lucia Capuzzi, inviata a Rosario venerdì 9 febbraio 2024

Il quartiere di La Tablada dove i muri sono dipinti con i colori della squadra di riferimento, il Central

«Dietro le sbarre ho capito una cosa fondamentale. Devi amarti ma non innamorati di te stesso, altrimenti non c’è più posto per gli altri». Javier Ruíz-Díaz alias “Coco” non fa in tempo a terminare la frase che un bimbo spunta sulla soglia. Entra, si accomoda sul sofà sconquassato e si mette a guardare i video sul telefonino mentre disegna. «“Rancho a parte” è casa loro e lo sanno», sottolinea Coco, l’ex ragazzino di La Tablada con alle spalle 15 anni di via vai nei penitenziari di Rosario, ora funzionario pubblico e esperto di sviluppo sociale. «Non “ex” – aggiunge -. Resto sempre un “negro”». Parola molto in voga in Argentina non legata alla pelle ma allo status sociale: indica gli abitanti delle zone povere o delle baraccopoli, le “villas miserias” di Rosario, la patria del calcio argentino - qui sono nati Lionel Messi, Javier Zanetti e Ángel Di María, solo per citare i campioni più recenti -e dell’ultimo «rivoluzionario»: Ernesto Che Guevara.

«Quando la gran parte delle persone cresciute in altre parti della città mi guarda, vede sempre un “negro”. Non importa che abbia studiato, che abbia chiuso con la droga, con il crimine. È una realtà con cui ho imparato a fare i conti. Senza vergognarmene. Anzi. È vero, sono un “negro”: questa, però, è una straordinaria risorsa». Proprio grazie alla sua storia “complicata”, Coco è diventato un riferimento per gli adolescenti di La Tablada per i quali, 12 anni fa, ha creato “Rancho a parte”. «Abbiamo creato – puntualizza -. Da soli si da poco. Eravamo un gruppo, alcuni sono rimasti, altri sono andati via, io stesso ho fatto un passo indietro per far crescere altri. “Rancho a parte” non è né vuole essere un’istituzione formale “per” i bambini. È, appunto, come dice il nome, “una cosa a parte”. Lavora e soprattutto “sta” con loro anche senza fare niente. È un luogo dove possono sentirsi a proprio agio, un rifugio dalla violenza della casa e della strada. Quanto non ho avuto io e la maggioranza di quanti nascono a La Tablada».


Bagno di folla a Rosario per Milei che si è recato in città dopo l'elezione - Ansa

Le acque dorate del Paraná si intravedono appena, oltre l’intreccio di case senza intonaco, strade mal asfaltate, carcasse di auto, capannoni industriali in disuso dopo l’ondata di privatizzazioni selvagge degli anni Novanta. Impianti di macellazione, congelamento, lavorazione dei cereali trasformati in scheletri dal drastico calo delle esportazioni seguito all’imposizione della parità tra la moneta nazionale, il peso, e il dollaro da parte del governo di Carlos Ménem. Solo il Rio è vivo e continua a pulsare congiungendo l’Argentina con il Brasile, la Bolivia, il Paraguay e l’Uruguay. L’idrovia, la chiamano: un corridoio di 3.400 chilometri creato dall’unione dei fiumi Paraná e Paraguay che prosegue in un gioco di affluenti fino allo sbocco conca del Plata. Il tratto più importante passa, però, per Rosario e il suo complesso portuale da 38 scali, 4 gestiti dalla provincia di Santa Fé e il resto da aziende multinazionali. Da qui “esce” il 75 per cento delle esportazioni agropecuarie della nazione, un business da 35 miliardi di dollari l’anno. Insieme a soia, grano, carne – mimetizzate nei doppi fondi delle casse – partono per l’Europa tonnellate di cocaina. Almeno 23 secondo le stime realizzate dalle autorità di Montevideo nel 2021. «I primi 200 chili sono transitati il 24 aprile 1978 in seguito a un accordo tra i generali al potere in Argentina e il dittatore boliviano Hugo Banzer. Il mezzo secolo successivo ha visto un exploit favorito dal fatto che i terminal, appaltati ad aziende private, si auto-gestiscono – spiega Carlos Del Frade, studioso, attivista e deputato provinciale, nel mirino dei narcos per le sue denunce -. Il controllo pubblico è debolissimo. Il porto di Rosario è uno Stato terzo». Una “Repubblica indipendente” le cui redini, sostengono fonti ben informate, sarebbero nelle mani del Primeiro comando da capital (Pcc), la mafia brasiliana che, nell’ultimo decennio, forte dei rapporti con la ‘ndrangheta calabrese, è riuscita a passare dallo spaccio nelle “favelas” al commercio internazionale di stupefacenti.
La coca non cresce in Argentina. Sono i cartelli messicani ad acquistarla ai gruppi criminali dei Paesi produttori – Colombia, Bolivia e Perù – e a inviarla, insieme a un buon numero di droghe sintetiche, al Pcc che ormai gestisce la cosiddetta “rotta del Cono Sud”. Rosario ne è l’epicentro: attraverso il Paraná e, poi, l’Atlantico – spesso previa una tappa in Africa –, la cocaina raggiunge il mercato di consumo europeo in continua espansione. Là la moltiplica il suo valore come nessun’altra merce al mondo. La geopolitica del narcotraffico insegna, però, che dove passa, la polvere bianca lascia una scia. Di sangue. Per operare con certa impunità, le grandi mafie corrompono l’assetto istituzionale, catturandone interi pezzi. E cooptano le bande che proliferano nell’abbandono statale delle periferie per ottenere manodopera a ottimo mercato. In cambio, le gang ricevono armi e, soprattutto, droga. Poca in termini assoluti, tanta rispetto agli standard locali e, soprattutto, sufficiente ad innescare una competizione sempre più feroce per il controllo del risicato mercato interno. È quanto è accaduto negli ultimi due decenni a Rosario, ormai la capitale argentina della violenza, con 22 omicidi ogni 100mila abitanti l’anno scorso, cinque volte la media nazionale, secondo i dati del Observtorio de seguridad pública di Santa Fé. Da gennaio, si registra un ammazzato ogni 46 ore. «Il punto di svolta - spiega Carlos Del Frade – è stato, il 26 maggio 2013, l’assassinio di “El Pájaro Cantero”, il capo di Los Monos». Il gruppo ha avuto un exploit all’inizio degli anni Duemila grazie agli oscuri legami con le curve del Central e del Newell’s. Non sono solo le due principali squadre di calcio rosarine. Sono parte dell’identità dei differenti quartieri dove le rispettive tifoserie si contendono i muri dipingendoli dei colori di riferimento. La Tablada, ad esempio, è inconfondibilmente giallo-azzurra, le tinte del Central.
«La morte del boss – aggiunge Del Frade – ha rotto gli equilibri tra le gang innescando un ciclo di vendette». Una guerra del tutti contro tutti a cui partecipano 127 gang. A muovere i fili sono, però, Los Monos e gli Alvarado. Chiusi negli appartamenti della “torre agualina” – grattacielo superlusso nel centro di Rosario – o nelle ville di Funes, appena fuori città, i clan rivali pianificano strategie e riciclano capitali. Per le strade i loro scagnozzi si affrontano a suon di sparatorie, massacri, cadaveri esibiti come messaggi. L’urgenza di nuova carne da cannone ha fatto sì che le bande intensificassero la “campagna acquisti” fra gli adolescenti senza presente né futuro delle villas miserias. Sono loro le vittime e i carnefici. “Los negros”, direbbe Coco. «Noi abbiamo perso cinque ragazzi di “Rancho a parte”. Marcos lo hanno massacrato nella stradina dietro l’associazione – sussurra, cercando di trattenere le lacrime, Rocío, un’altra delle veterane. Dove risiede la donna – villa Manuelita, il settore più povero e violento di La Tablada, ci sono state cinque vittime nel giro di una settimana. «È un momento caldo», dice. «La violenza tiene in ostaggio una delle nostre città principali», ha tuonato Javier Milei nel primo discorso da presidente, lo scorso 10 dicembre. E, poco dopo, ha dichiaratola propria «guerra al narcotraffico», sulla falsa riga dell’Ecuador di Daniel Noboa e il Salvador di Nayib Bukele. A parte l’incremento delle forze di sicurezza, l’asse portante del programma anti-crimine del governo di ultra-destra è l’abbassamento dell’età penale – cioè quella per cui si può venire imputati e giudicati come adulti – da 16 a 14 anni. Il testo, secondo il ministero della Giustizia, sarà presentato a breve. «È più facile fare irruzione nelle villas e punire la “carne da cannone” piuttosto che negli uffici dalle ampie vetrate e perseguire chi sposta i capitali – conclude Coco –. In fondo sono solo “negros"».