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Reportage. Rio violenta: la grande crisi uccide la tregua nelle favelas

Lucia Capuzzi - Rio de Janeiro venerdì 3 marzo 2017

L’esercito era arrivato a Maré per mettere in sicurezza la favela e a preparare il terreno alla polizia di pace: dopo quasi due anni di tentativi, però, lo scorso giugno, ci ha rinunciato

Ha le spalle incurvate per il peso del fucile. L’arma aderisce al corpo esile del ragazzino, fino a sfiorare le ginocchia. Avrà sì e no 15 anni ma è già un soldato. I narcotrafficanti del Terceiro Comando l’hanno reclutato a 10 e, lentamente, l’adolescente ha scalato la gerarchia criminale. È stato “vedetta”, come i bambini piazzati più in basso che, con la ricetrasmittente incollata all’orecchio, segnalano chi si muove per la favela del complesso di Maré, nel nord di Rio de Janeiro. Ora è stato “promosso” guardia: sorveglia la “ boca de fumo”, punto di spaccio, un minimarket della droga aperto h 24 e fornito di tutto punto: cocaina – la più gettonata – marijuana, pasticche.

A differenza delle mafie messicana e colombiana, i trafficanti carioca non esportano in Usa e Europa: il loro business si limita al mercato interno. I facoltosi rampolli di Copacabana e Ipanema nonché i turisti si arrampicano fin qui con le loro auto, fanno la “spesa” e ripartono. I favelados (abitanti delle favelas) – 1,7 milioni di persone, un terzo della popolazione – restano. In balia dei narcos. Che hanno, con le comunità, un rapporto parassitario: sfruttano la storica latitanza dello Stato per imporvi i loro commerci. E relativa legge criminale. L’1 per cento del popolo delle favelas è coinvolto nel business. Il resto ne è ostaggio. Stavolta “all’emporio Maré” il via vai non è intenso come al solito. La favela – una cittadina di 150mila abitanti, divisi in 17 comunità – è in allerta. Il giorno precedente, i narcos rivali del Comando Vermelho hanno attraversato la frontiera invisibile che separa le due metà della collina di Timbau. Gli uomini – tutti under 30 – del Terceiro Comando hanno reagito: nello scontro sono state uccise 4 persone, tra cui un bimbo. I giornali non ne hanno nemmeno parlato. «Perché la polizia non è riuscita a entrare e, dunque, nemmeno i giornalisti», racconta un residente.

A Maré, da qualche tempo, fatti di questo tipo accadono almeno un paio di volte al mese. Eppure, la “liberazione” della comunità dal dominio dei trafficanti avrebbe dovuto sancire il compimento dell’esperimento di riconquista del territorio avviato dal 2008. Da allora, le autorità hanno installato in 38 complessi di favelas – per un totale di 264 comunità – un corpo di agenti ad hoc, l’Unità di polizia di pace (Upp). Maré doveva essere l’avamposto numero 39 entro i Mondiali del 2014. Dopo quasi due anni di tentativi di “bonifica”, però, lo scorso giugno lo Stato ha suonato la ritirata.

Mentre nelle altre favelas “pacificate” – dal Complexo do Alemão, sull’altro lato di Avenida Brasil, a Rocinha, a ridosso di Ipanema –, la violenza ha cominciato a ri-salire pericolosamente. Come nel resto dello Stato – 5.033 omicidi nel 2016, il 20 per cento dell’anno precedente – e del Paese, più 14 per cento tra 2005 e 2015. «In primo luogo, l’escalation è un “effetto collaterale” della crisi – spiega Ignacio Cano, noto esperto di sicurezza dell’Università statale di Rio (Uerj) –. I poliziotti, come gli altri dipendenti pubblici, sono pagati in ritardo, non hanno ricevuto la tredicesima, gli straordinari sono bloccati». In segno di protesta, gli agenti della vicina Vitória, nello Stato di Espirito Santo, il mese scorso, hanno incrociato le braccia per due settimane. In città è esploso il caos, con un record di oltre cento omicidi solo nei primi giorni di “sciopero”. I poliziotti di Rio hanno cercato di imitare i colleghi: l’agitazione si è estesa in venti dei cento battaglioni carioca, ma poi è rientrata. I tagli hanno colpito anche le Upp. «Dobbiamo centellinare gli spostamenti per risparmiare benzina nelle auto.

Non abbiamo nemmeno la carta per la stampante. Imprimo i documenti sul retro dei fogli vecchi. I narcos sono consapevoli delle nostre difficoltà e rialzano la testa», afferma Tatiana Lima, giovane comandante dell’Upp di Santa Marta, mentre mostra la carta “double-face”. La favela – tra le più piccole, seimila persone – è stata la prima a sperimentare la “pacificazione”, il 19 dicembre 2008, divenendo un modello per le altre. Qualcosa, però, anche qui comincia a incrinarsi. Per strada non si vedono ragazzini armati. Sui muri, però, sono rispuntati i simboli del Comando Vermelho. C’è stato il primo assassinio dopo otto anni di tregua. «Ma no, va tutto bene», taglia corto Lena. Nel suo negozietto di souvenir, viene proiettato ininterrottamente il video girato da Micheal Jackson a Santa Marta, l’11 febbraio 1996. Nelle immagini spunta anche una giovane Lena, intenta a ballare sulle note di « They don’t care about us ». Quando le si domanda della polizia di pace si irrigidisce. «Di questo non parlo». «La gente ci tiene a distanza perché ha paura che, a causa della recessione, l’Upp vada via. E teme le rappresaglie dei narcos», sottolinea la comandante Lima. Non è, però, solo questione di portafogli. «Alle sforbiciate, si aggiungono problemi strutturali. Le Upp sarebbero dovute essere il punto di partenza per riformare la polizia in senso professionale e lottare contro la corruzione. Ma non si è fatto», afferma Robson Silva, a capo del progetto di pacificazione tra il 2010 e il 2011.

«Lo sforzo, inoltre, si è concentrato sulle favelas vicine ai grandi eventi e non su quelle più problematiche – prosegue Cano, autore di un monitoraggio insieme al sociologo della Sapienza, Giuseppe Ricotta, collaboratore di Archivio Disarmo –. Non c’è stato, inoltre, un adeguato investimento sociale per dare opportunità a chi lasciava il crimine». Adesso, con la crisi, sempre più ricadono nella rete. «Anche perché i narcos stanno intensificando l’arruolamento – dice monsignor Luiz Lopes Pereira, coordinatore della Pastorale per le favelas –. Soprattutto dei ragazzini». Per salvarli, mentre il governo si dibatte tra austerity e sicurezza, la coraggiosa inventiva dei favelados crea dal nulla alternative. Come il Centro de estudos e ações solidárias da Maré (Ceasm): dal 1997, i suoi corsi gratuiti aiutano i diplomati della comunità a superare il test di ingresso all’Università. «Volevamo dare una chance ai nostri giovani – spiega Luiz Antale, uno dei fondatori –. Così ci siamo dati da fare. Ci danno una mano 17 docenti, tutti volontari, che impartiscono le lezioni. Su 1.400 studenti, l’80 per cento è riuscito ad entrare in una Facoltà».

Non solo. Dal Ceasm è nato il Museo da Maré, uno spazio di memoria degli 80 anni di lotta pacifica della comunità per sopravvivere. Nello spazio tra l’istituzione – diventata un referente internazionale della museologia sociale – e il Ceasm si susseguono tre bocas de fumo, con relativi baby soldati armati. Luiz distoglie lo sguardo mentre passa: «È dura. Ma continuiamo a resistere».