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Intervista. Rice: «L'11/9 è iniziato in Afghanistan e non dovrà più ricominciare da lì»

Elena Molinari, New York giovedì 9 settembre 2021

Condoleezza Rice

Ea nel bunker sotterraneo della Casa Bianca e non si sentiva al sicuro. L’11 settembre 2001 Condoleezza Rice era terrorizzata. Come tutti quelli che la circondavano in una stanza che ricorda come antiquata, male attrezzata e soffocante. L’allora consigliera per la Sicurezza nazionale di George W. Bush, più tardi sua segretaria di Stato, oggi insegna a Stanford e dirige il think tank conservatore Hoover Institution. Dice di non avere interesse a tornare a Washington, evita di parlare male di Donald Trump o di criticare Joe Biden, ma non ha dubbi che la guerra che ha contribuito a lanciare vent’anni fa in Afghanistan sarebbe dovuta finire in un altro modo.

Dov’era quando l’attacco cominciò?
Ero alla mia scrivania alla Casa Bianca quando la mia assistente mi avvisò che un aereo aveva colpito il World Trade Center. Chiamai subito il presidente, che era in Florida, ma non lo allarmai: sembrava un incidente. Quando il secondo aereo colpì, tutto cambiò. Fu chiaro che era un attacco terroristico. Ma fu quando il Pentagono, l’edificio più protetto al mondo, venne colpito, che tutte le mie certezza crollarono: pensai che era un attacco totale, in tutta Washington, che non c’era più alcun luogo sicuro.

Che cosa ricorda di quelle ore?
Qualcuno del servizio segreto entrò e mi disse che dovevo scendere nel bunker. Di fatto mi ci spinsero di peso. Mentre correvo il mio solo pensiero era: manda un messaggio al mondo che gli Stati Uniti non sono stati decapitati e che non si stanno sfaldando. Volevo assicurarmi che non ci fosse un’ondata di panico. Da quel momento in poi, e non solo per una giornata, cominciò una processione di scelte difficili. Non avevamo ancora una struttura per la sicurezza interna, avanzavamo alla cieca, senza bussola.

La sensazione di essere in pericolo durò a lungo?
Sì, perché non avevamo idea di cosa sarebbe successo. Fu uno choc scoprirci così vulnerabili. Sebbene sapessimo molto di al-Qaeda, non avevamo potuto prevedere il modo in cui ci hanno colpito. Ogni aereo era diventato potenzialmente un missile.

Pensa che avreste potuto fare di più per impedire l’attentato?
Credo intellettualmente che abbiamo fatto tutto il possibile, ma c’è sempre una parte di me che mi dice che forse avremmo potuto fare di più. Di certo da quel giorno la sicurezza dell’America non è stata la stessa.

Mentre mi portavano nel bunker della Casa Bianca ho pensato «manda un messaggio al mondo che gli Usa non sono stati decapitati e non si stanno sfaldando» Poi ho chiamato Putin perché non scatenasse l’allerta totale


Quale è stato il momento più difficile?
Quando il vicepresidente Dick Cheney ha ottenendo l’autorizzazione dal presidente a abbattere ogni aereo di linea che non rispondeva adeguatamente agli ordini. Poi abbiamo ricevuto la notizia che un velivolo commerciale si era schiantato in Pennsylvania e per 15 terribili minuti abbiamo pensato che l’aviazione militare avesse ucciso civili innocenti. Ma era un male necessario. Ho imparato a fare scelte sgradevoli, non in bianco e nero: quando non c’è una buona alternativa, cerchi di scegliere il male minore e speri che le tue convinzioni morali ti aiutino a fare la cosa giusta.

E il momento di maggior conforto?
Il senso di resilienza del nostro Paese, che ci siamo ritrovati insieme nel dolore e con la determinazione condivisa a ricominciare. Il senso di valori comuni. A partire dall’Amministrazione. Da quel giorno eravamo tutti determinati a fare del nostro meglio affinché non si ripetesse un orrore simile. Non dimenticherò mai le foto delle persone che saltano dalle finestre all’80° piano.

Che cosa fece per mantenere la calma?
Cercavo di ricordami le simulazioni di crisi e pensai alla Russia. Allora chiamai Vladimir Putin per fargli sapere che le nostre forze stavano andando in massima allerta, perché avevo paura che mettesse automaticamente in allerta le sue e che avremmo avuto un’escalation pericolosa. Mi disse: «Lo so, non preoccuparti, ho ordinato ai nostri allerta di scendere».

L’affermazione che Bush fece quella sera che chi dà rifugio a un terrorista verrà considerato un nemico degli Stati Uniti ha dato il via libera alla guerra in Afghanistan che si è appena conclusa. Come la giudica?
Sono amareggiata da come si è conclusa. Gli Usa hanno abbandonato gli afgani che hanno combattuto con noi. Anche se 20 anni sembrano tanti, non hanno avuto il tempo di passare da un regime retrogrado e decenni di guerra a una democrazia in grado di proteggersi da sola. Non dovremmo mai dimenticare che l’11 settembre è iniziato in Afghanistan e non possiamo permetterci che ricominci da lì, e che l’Afghanistan diventi di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi. I taleban sono terroristi e molto probabilmente incoraggeranno altri terroristi.