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Brasile. Il triste record di Rio de Janeiro: 1.546 uccisi dalla polizia nelle favelas

Lucia Capuzzi venerdì 27 dicembre 2019

Un agente di polizia delle unità speciali in azione in una favela (Archivio)

«Non ci siamo dimenticati di te e di ciò che hai fatto. Il prossimo Natale non lo festeggerai con la famiglia ma con il diavolo». L’ultima minaccia è arrivata, come al solito, via Facebook. Al pari delle altre, non si è trattato, però, di uno scherzo di cattivo gusto. Tanto che, per la prima volta, Vanderley Da Cunha sta pensando di lasciare la favela di Acarí, baraccopoli di 42mila persone nel nord di Rio de Janeiro. Là è nato e cresciuto e là, da 25 anni, cerca, con il calcio, di tenere i bambini e adolescenti lontani dalle gang.

In realtà, già dal 2018, «Derley», come lo chiamano, poeta autodidatta, non abita ad Acarí bensì è ospite di amici, in un luogo segreto. Nella favela, però, dai “suoi” ragazzi, l’attivista torna spesso. «Cerco di andare almeno una volta alla settimana. Ma solo quando non ci sono “operazioni”». Ovvero quando la polizia non è presente.

È di lei che ha paura Derley. Eppure non ha commesso crimini. «Ho fatto di peggio. Ho creato l’associazione Fala Acarí per aiutare le famiglie a denunciare esecuzioni extragiudiziali commesse dalle forze dell’ordine. E continuo farlo. Specie ora che la violenza degli agenti è diventata endemica», racconta.

Tra gennaio e ottobre, la polizia ha ucciso 1.546 persone nello Stato di Rio, il record degli ultimi 21 anni, in media cinque al giorno, il 18 per cento in più dello stesso periodo del 2018 e un terzo del totale degli omicidi. Le morti sono avvenute, tranne rarissime eccezioni, nelle favelas, ufficialmente per «legittima difesa».

I tre quarti delle vittime sono nere e hanno tra i 14 e i 29 anni.

In realtà, da sempre, le principali organizzazioni per i diritti umani – da Amnesty international a Human rights watch – denunciano i metodi “sbrigativi” delle forze dell’ordine durante i blitz “mordi e fuggi” – «ammazza e fuggi», li chiamano i brasiliani – che conducono nelle baraccopoli a caccia di trafficanti. La situazione è peggiorata quest’anno, con l’entrata in carica del governatore Wilson Witzel, dello stesso partito del presidente d’ultradestra Jair Bolsonaro. Ex militare e giudice, il leader ha fatto della lotta senza quartiere alla delinquenza il suo leitmotiv, fino a scandalizzare con affermazioni polemiche come «con un bandito armato la polizia sa che cosa fare: mirare alla testa e sparare» o «peccato non poter lanciare missili» sulle favelas.

A maggio il governatore si è fatto riprendere a bordo di un elicottero, insieme a un cecchino incaricato di dare copertura aerea alla polizia in una favela. Una strategia controversa per l’elevato numero di «danni collaterali», come vengono chiamate le vittime innocenti, tra cui sei bambini morti finora. Witzel ha anche revocato l’obbligo per le forze dell’ordine di effettuare operazioni solo di giorno e accompagnati da ambulanze.

La politica “muscolare” contro il crimine è valsa al governatore il soprannome di “Duterte brasiliano”. Nonché un’indagine della Corte Suprema, iniziata il 5 dicembre. E la forte denuncia della Pastorale delle favelas della Chiesa.

Nel resto del Paese, in realtà, non va meglio.

A San Paolo, le persone uccise dalla polizia sono cresciute dell’11,5 per cento nei primi sei mesi dell’anno. In parte, si tratta di una tendenza in atto già dal 2018. Gli esperti, però, sottolineano l’importanza del “fattore Bolsonaro”, il modello di Witzel, convinto sostenitore della linea dura. Non solo a parole, come l’ormai noto motto: «Un agente che non uccide non è un agente».

Il giorno di Natale, il presidente ha concesso l’indulto ai poliziotti e ai militari colpevoli di «uso sproporzionato della forza». «La violenza della polizia non è una novità. Ora, però, viene “legittimata” dalle istituzioni – spiega Dario de Souza, sociologo dell’Università statale di Rio de Janeiro –. Gli abitanti delle favelas sono ostaggio e non alleati del crimine, che si rifugia nelle baraccopoli a causa dell’assenza dello Stato. È questo il nodo da affrontare».

In concomitanza con i grandi eventi, tra il 2008 e il 2015, Rio aveva cercato di farlo con la polizia di pace, unità presenti h24 nelle baraccopoli. Almeno in quelle vicine al centro. L’esperimento, però, è stato archiviato per la crisi.

E si è tornati al “grilletto facile”. «So di essere un bersaglio. Lo sono dal 2017, quando abbiamo fatto arrivare a processo un caso – conclude Derley –. Avevo chiesto aiuto alla consigliera Marielle Franco. Quando l’hanno uccisa, ho capito che dovevo nascondermi. Ho perso tutto: il lavoro, la famiglia che vedo sempre meno. Ma voglio restare vivo e continuare a lottare per Acarí».