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REPORTAGE. Rap, iPhone e mitragliatore: la corsa dei ragazzi anti-rais

Giorgio Ferrari giovedì 31 marzo 2011
«E già morendo Eurïalo cadea, di san­gue asperso le belle membra, e ro­vesciato il collo, qual reciso dal vo­mero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch’a terra il capo inchina...». Khaled ha 22 anni, è figlio unico, studia diritto agrario all’Università di Bengasi-Gheriudis. Sa­mir di anni ne ha 19, ha tre sorelle, fa il salda­tore e sul suo iPhone taroccato scorrono delle immagini da brivido: una corsa su una motocicletta con il tachimetro che sfiora i 260 orari. I due sorridono complici. «Ce n’è uno anco­ra meglio – dice Khaled –, guarda bene...». Sul cellula­re appare una Honda im­pennata che fila sull’auto­strada che porta da Bengasi ad Ajdabiya a 160 all’ora. «Meglio della roulette russa, no?», dice Samir. Una radio sputacchia un rap ipnotico che conclude ogni emistichio con la parola «shabab». È il loro in­no. Ma per capire in filigrana questa gioventù libica che si è rivoltata contro il rais, questa mas­sa di giovani che invece di leggere Virgilio a­scoltano musica techno-pop, guidano le Kia, le Lantra, le Spectra, si filmano e si ritraggono in quei riti di auto-identificazione e insieme di convalida del loro coraggio virile, dobbiamo partire da qui, da questa mutazione antropo­logica che trasforma un tranquillo studente di Bengasi e il suo amico saldatore in due volon­tari della guerra, che lasciano a casa la Honda e saltano sul pianale del pick-up con una mi­tragliatrice fra le gambe e l’incoscienza di chi va a sfidare i cannoni delle brigate lealiste di Gheddafi lasciando nel retrobottega della so­cietà le donne, le fidanzate, le sorelle, la cui pre­senza è solo suggerita, le cui gesta silenziose ri­mangono dissimulate dietro la marcia trionfa­le dei maschi. Ma è davvero una mutazione? Forse no. Forse, come dicono in molti, sotto la coltre della ras­segnazione covava una sorda rivolta contro il “padre”, contro Gheddafi, contro il peloso mo­ralismo di regime, contro l’asfissia di ogni pen­siero libero, contro una società così povera di pensiero e di slancio da non avere intellettua­li, scrittori, pensatori noti al mondo e neppure ai propri sudditi. E anche se la libertà per noi occidentali è qualcosa di più denso e nobile di una corsa in moto verso la dis­soluzione, questi shabab che corrono frenetici su e giù dal fronte, ora avan­zando con l’ausilio delle bombe della coalizione, ora ripiegando precipito­si, com’è avvenuto negli ultimi due giorni, hanno trovato finalmente uno scopo. Ma come nasce un guerriero rivoluzionario, chi lo istruisce, chi lo arma? Katibat al-Shuhadaa è il loro centro di addestramento, una caserma già appartenuta all’esercito libico regolare, ge­mella di un’altra andata distrutta durante la sol­levazione di Bengasi. «L’addestramento – spie­ga Ahmed F., ex capitano dell’esercito – non av­viene alla luce del sole. Il perché lei forse lo può capire da solo». Ci proviamo. La più facile del­le congetture è che vi siano istruttori occiden­tali, inglesi, francesi, forse americani. Il training è rude ma elementare. Per ora basta a istituire posti di blocco, puntare una batteria di missili grad o le mitragliere sui pick up. «Non di più, perché gli addestratori sono prudenti», dice Ah­med. Ed è vero. La storia insegna: se li armi trop­po, come in Afghanistan con i mujaheddin, poi ti ritrovi una milizia ben equipaggiata che ti si rivolta contro, come hanno fatto i taleban, o come è capitato in Angola e in Nicaragua. E a questo proposito fonte d’inquietudine è il ronzio per ora flebile ma comunque insisten­te che parla di infiltrazioni di al-Qaeda e di Hez­bollah fra i shabab libici. Senza contare l’espli­cito sostegno dei Fratelli musulmani, che a­pertamente appoggiano la rivoluzione e riven­dicano l’uscita dalla clandestinità e un ruolo da protagonisti nella futura democrazia libica del dopo-Gheddafi. I giovani rivoluzionari tuttavia insistono: vo­gliono armi leggere e anche pesanti. I Kalash­nikov non bastano, le mitragliere da 105mm neppure, le due o tre batterie Grad sono solo u­na puntura di spillo nella testuggine dei corpi d’élite del Colonnello. Ma sapranno adopera­re armamenti più pesanti e sofisticati? Certa­mente no, avranno bisogno di nuovo adde­stramento, quindi di un’imbarazzante impie­go di istruttori di altre nazioni. Esattamente ciò che la coalizione – profondamente divisa su quasi tutto – rilutta a fare. Eppure nei giorni scorsi abbiamo visto transitare dal valico egi­ziano di Sollum carichi di munizioni e di ar­mamenti che il governo egiziano ha benevol­mente finto di ignorare. Khaled e Samir li ho conosciuti durante la rot­ta di Ras Lanuf. Costretti come noi a fuggire nella notte prima che i missili e i mortai di Gheddafi ci raggiungessero. Per noi la ritirata è stata un momento di comprensibile angoscia, per loro una parte della festa. Fuochi ardevano nelle tenebre, il grosso delle milizie degli insorti accampato nei pressi di Ajdabiya. Li ho intra­visti, Khaled e Shamir, accucciati a terra, il Ka­lashnikov appoggiato sullo zaino, un narghilé da cui esalava l’odore salmastro dell’hascisc, l’onnipresente rap libico che martellava. Ma che diamine di guerra è mai questa? E come sperate di vincerla da soli, shabab sventati so­gnatori, addormentati al termine della battaglia come i troiani Eurialo e Niso?