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Elezioni in Svezia. Cosa spinge gli europei verso il «prima tocca a noi»

Giorgio Ferrari sabato 8 settembre 2018

Sarà una domenica di paura. Sarà il giorno in cui gli svedesi di Svenska Demokraterna (Sd), guidati nella cavalcata verso la vittoria dal sulfureo Jimmie Akesson, rischiano di porre una pericolosa ipoteca sul futuro della Svezia. Akesson, che fin dalla prima infanzia progettava di guidare il suo Paese liberandolo dalle pastoie della socialdemocrazia e da quel Welfare che fino all’altro ieri lo ha nutrito, assistito, protetto, reso un autentico svedese secondo il modello caro alla patria di Strindberg, di Bergman, del compianto Olof Palme, quel modello sociale non lo vuole più condividere con gli estranei, i migranti, gli «alieni», come lui li chiama, gli stessi che hanno dato alla Svezia la palma della nazione più accogliente d’Europa: 250mila migranti su 10 milioni di persone.

E se per farlo occorre abbattere il bastione dell’egemonia socialdemocratica che da un secolo veglia e sorveglia la Svezia, che si faccia largo alle legione di sovranisti, antieuropeisti, xenofobi, populisti. Sd in fondo non è che una delle propaggini della destra europea che condivide con il filosofo Carl Schmitt (già presidente dell’Associazione dei giuristi nazionalsocialisti negli anni Trenta e teorico – hobbesianamente – dello Stato di eccezione) il dualismo 'amicus/inimicus': o sei con noi o sei contro di noi, in una totale irreconciliabile alterità. Ma Akesson non ha bisogno usare le sottigliezze del pensiero filosofico per convincere la massa sempre più densa dei suoi sostenitori.

L’Europa ospita oramai una ben visibile faglia geopolitica che va da Baltico fino all’Egeo e che la taglia in due, passando per la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia, lambendo il Mar Adriatico (stiamo parlando dei giallo- verdi italiani) fino a alla Grecia. Fascismi ben dissimulati? Non si capisce. Forse no, non ancora; e nemmeno l’abusata locuzione «uno spettro si aggira per l’Europa» funziona. Ma un po’ sì, dopotutto: che altro sono la germanica Alternative für Deutschand, l’austriaco Freiheitliche Partei Österreichs, il Pvv dell’olandese Geert Wilders, il Front National di Marine Le Pen, il Gruppo di Visegrád se non facce dello stesso caleidoscopio? Facce diverse, variegate, capaci di dissimulare e depistare.

Ma il Leitmotiv è sempre lo stesso: prima l’Europa, via i migranti. E magari nel futuro una Swexit, una Polexit. Perfino in Danimarca, l’isola felice che salvò dall’Olocausto migliaia di ebrei ed ora trema s’infuria di fronte a poche centinaia di migranti, ora il Dansk Folkeparti – primo partito del Paese – guida la riscossa contro «l’invasione maghrebina». Non sono da meno i Veri Finlandesi e il Partito del progresso norvegese. Le cifre dei sondaggi servono a poco. Serve semmai gettare lo sguardo sulla carta geografica e rendersi conto che fra qualche giorno il nord Europa potrebbe essere quasi per intero sovranista. Intendiamoci: le armate del populismo xenofobo difficilmente governeranno l’Europa in prima persona.

Ma la condizioneranno, come del resto già accade, costringendo liberali e democratici a spostarsi a destra per tentare di frenare l’emorragia di voti. Sta già accadendo in Germania, nazione significativamente pilota, dove Angela Merkel ha lanciato alla ribalta europea (boccone amarissimo, ma necessario) quel Manfred Weber che non si colloca certamente fra le figure più progressiste dei cristiano-democratici tedeschi. Quanto poi a meravigliarsi oggi di certi rigurgiti xenofobi e razzisti del grande nord europeo, è solo una questione di memoria: poteva un Paese così civile come la Svezia – ma altrettanto barbaro nell’attuare un programma eugenetico sulle fasce più deboli che è durato oltre sessant’anni – sfuggire alla seduzione del sangue, del suolo e sì, diciamolo pure, della purezza della razza?

E qual è in fondo la venatura profonda di quasi tutti thriller scandinavi che in questi anni leggiamo con passione se non un torvo lacerante sguardo all’interno dell’anima profonda di questo nord ricco e sazio, che al primo segnale di pericolo individua nell’altro il nemico da abbattere e lo fa con compiaciuta diligenza? Su questi fantasmi cavalca Akesson (e non soltanto lui), sapendo di avere buon gioco.