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America Latina. Provano a mediare, i vescovi del Nicaragua picchiati in chiesa

Lucia Capuzzi lunedì 9 luglio 2018

I vescovi in processione contro le violenze in Nicaragua (foto via twitter)

Il segnale di un ulteriore “giro di vite” era arrivato nella notte di sabato. Di fronte a una folla di sostenitori, a Managua, Daniel Ortega aveva rifiutato con tono sprezzante la proposta dei vescovi di anticipare le elezioni al marzo prossimo. Un’ipotesi sostenuta dall’opposizione e dalle principali organizzazioni internazionali per uscire dalla crisi. Alla lettera, recapitatagli personalmente dalla Conferenza episcopale nicaraguense il 7 giugno, il presidente-comandante ha risposto con un aggressivo discorso pubblico. «Le regole sono state stabilite dalla Costituzione per volere del popolo. Non si possono cambiare perché lo desidera un gruppo di golpisti». Poi una raffica di insulti contro i pastori che, su richiesta di entrambe le parti, stanno portando avanti un difficile processo di dialogo per far mettere fine alla violenta crisi che dilania il Paese.

Ortega non aveva ancora terminato di parlare che, immediatamente, polizia e gruppi paramilitari – le cosiddette “turbas” – si sono messi all’opera. Cominciando la “caccia” a oppositori e dimostranti. Stavolta la repressione si è concentrata nella zona del sud-ovest, in particolare le città di Diriamba, Dolores e Jinotepe nella regione del Carazo. Gli attacchi sono andati avanti senza sosta, uccidendo almeno 11 persone, come ha riferito la Asociación nicaraguense pro derechos humanos, in meno di 48 ore. Vari testimoni hanno denunciato anche esecuzioni extragiudiziali. Decine di dimostranti sono stati arrestati e portati nel carcere bunker di El Chipote della capitale. Altrettanti risultano desaparecidos.

Per fermare la mattanza, lunedì una delegazione della Chiesa – composta tra gli altri dal cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua, l’ausiliare Silvio Báez e il nunzio, Stanislaw Waldemar Sommertag – si è messa in marcia verso la zona di Carazo. L’idea era quella di fare da scudi umani alla popolazione colpita, come era accaduto a Masaya, il 3 giugno. Allora, la presenza dei pastori disarmati, usciti in processione con il Santissimo, aveva “paralizzato” le forze di sicurezza. Stavolta, però, la macchina della repressione non si è arrestata. Tutt’altro.

All’arrivo a Diarimba, la carovana episcopale è stata accolta da urla, spintoni e insulti. I vescovi hanno sfidato gli agenti, sempre più minacciosi. E si sono diretti con passo fermo verso la basilica di San Sebastián, dove si era rifugiato un gruppo di francescani “colpevole” di aver cercato di curare i feriti. Polizia e “turbas” hanno circondato l’edificio. Poi, un gruppo di uomini incappucciati ha fatto irruzione nella chiesa, scatenando il caos. Il commando ha cominciato a picchiare a casaccio vescovi, sacerdoti e i giornalisti, accorsi sul posto. A molti reporter sono state distrutte o rubate le attrezzature. La basilica è stata in gran parte distrutta mentre sui muri e il pavimento si moltiplicavano le macchie di sangue. «È stato un attacco codardo», ha denunciato il cardinale Brenes su Twitter. «Con la violenza ci incamminiamo in una strada senza uscita. I problemi si risolvono con la ragione e il dialogo», ha aggiunto monsignor Báez, ferito al braccio destro nell’aggressione, come padre Edwin Román, soprannominato il “parroco-eroe”. Quest’ultimo, bisnipote del padre della patria, Augusto Sandino, ha difeso con coraggio profetico gli abitanti di Masaya. Proprio per il suo impegno è stato più volte minacciato di morte, come monsignor Báez e numerosi altri presuli. Il rischio è che ora il governo voglia alzare ancora il tiro.

Fonti ben informate dicono ad Avvenire che il presidente Ortega ha ordinato «un’energica ripulita» per mettere fine alle proteste prima del 19 luglio. In tale data si celebra 39esimo anniversario del trionfo della rivoluzione sandinista, a cui l’attuale presidente ha partecipato e di cui si proclama unico legittimo rappresentante. In realtà, la sua ostinazione a restare al potere nonostante la rivolta della piazza – costata la vita a oltre trecento persone dal 18 aprile – ricorda più Anastasio Somoza, il dittatore sconfitto dai sandinisti.