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Campagna per il Pakistan. I nuovi schiavi nelle fornaci di mattoni

Luca Miele giovedì 17 agosto 2017

Ansa

È una doppia, terribile, discriminazione. Che colpisce le minoranze religiose – cristiana e indù – e le fasce più povere della popolazione pachistana. Arrivando a coinvolgere un “esercito” di 2,3 milioni di persone. Sono gli “schiavi per debito”. Il meccanismo – che li condanna ad abusi, vessazioni, maltrattamenti, a un’intera esistenza alla mercé di padroni spesso senza scrupoli – è inesorabile. Si inizia con un prestito o un anticipo da parte dei datori di lavoro. Restituirlo richiede in media due anni, durante i quali si è ridotti in una condizione servile. Senza diritti, senza certezze, senza paga, costretti a turni di lavoro massacranti, in abitazioni spesso fatiscenti. In molti casi, il lavoratore non ce la fa, non riesce a ripagare il debito contratto. Inizia, così, un calvario che spesso si conclude soltanto con la morte. “Nessuno sia più schiavo” è la campagna che Avvenire lancia, assieme a Focsiv e Iscos, per combattere il fenomeno degli “schiavi a debito”. Un impegno che si fonda su una certezza: le catene della schiavitù, in qualsiasi forma vengano mascherate, non sono più tollerabili. Possono e devono essere spezzate.

Sono tanti i “nemici” che, ogni giorno, “un mattonaio” pachistano deve affrontare. Alcuni sono conclamati, altri più insidiosi, perché invisibili. Il primo, il nemico per eccellenza, è il caldo.

Per sfuggire a temperature che durante il giorno possono superare i 40 gradi, è necessario che la giornata lavorativa inizi presto, prestissimo, prima dell’alba. Nelle ore più calde, i lavoratori delle fornaci si fermano. Ma è solo un’interruzione momentanea. Si riprende la sera. Per ore, i mattonai sono seduti sulla terra nuda. Bimbi compresi. La lavorazione è complessa, eseguita con metodi “artigianali”.

Prima si lavora l’argilla con acqua, poi si procede all’essiccazione, infine alla cottura nei forni. I mattoni vengono, una volta completata la produzione, disposti in file lunghissime, trasportati a mano, uno alla volta. Alla fine, i mattonai inanellano una media di dieci-tredici ore di lavoro al giorno.

Per un bottino, spiegano i volontari di Iscos Cisl, molto magro. Una famiglia riesce a produrre fino a 1.500 mattoni al giorno, intascando una manciata di dollari alla settima. Poco, troppo poco. Dai nemici più insidiosi è, invece, impossibile difendersi. Per un motivo semplice: non esiste riparo. Perché quel nemico si addensa nell’aria, finisce diritto nei polmoni, brucia gli occhi. Sostanze sprigionate dai forni. Sostanze nocive. Ogni fornace ha una sorta di piccolo satellite, un piccolo groviglio di abitazioni che vi preme contro. Il panorama, rispetto alla fornace, non cambia: ovunque solo fango e mattoni.

Ogni casa è composta al massimo di due-tre stanze. Dentro vi sono ammassate intere famiglie. L’elettricità, quando c’è, viene fornita dal padrone dei forni, in genere in quantità razionata. Il suo costo viene sottratto dalla paga. L’acqua è disponibile nelle case e nei luoghi di lavoro grazie ai pozzi nelle vicinanze. Spesso è molto inquinata. Le abitazioni non sono fornite di sistemi di scarico. Le condizioni igieniche sono intollerabili. In questi villaggi improvvisati non esistono scuole. Di spazi dove i lavoratori e le loro famiglie possano socializzare, neanche a parlarne. I bambini che frequentano vanno in classe in una zona limitrofa sono pochissimi.
L’industria dei mattoni che rappresenta il 3 per cento del Pil pachistano. Secondo stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sull’intero territorio nazionale, sono disseminate tra le 8mila e le 10mila fornaci. Sono circa 1,5 milioni di persone i lavoratori del settore. Nella sola provincia del Punjab sono attive 5mila fornaci. Queste ultime sono il “regno” del lavoro forzato. Un sistema regolato da una leggere ferra, inflessibile. Una volta che si sprofonda dentro la rete, diventa impossibile riemergevi.

Ma come funziona questa vera e propria trappola? Spiegano i volontari di Iscos: «Il sistema si basa sugli anticipi di salario, ed è chiamato “peshgi”. All’inizio della stagione, quando i mattonai si presentano alla fornace, il padrone versa loro una somma in anticipo. Si tratta anche di cifre cospicue, che raramente il lavoratore riesce a ripagare nel breve periodo. Anzi, debiti successivi si assommano ai precedenti, accumulandosi nel tempo. Si innesca così un meccanismo che porta ad un lavoro ripetitivo, squalificante, mal pagato, dannoso per la salute, privato di ogni tutela sociale, che sfrutta la manodopera minorile, che riproduce per via ereditaria la condizione di povertà, dipendenza ed emarginazione dei “nuovi schiavi”, irretiti dal sistema di servitù da debito». Una forma di schiavitù che colloca il Pakistan al sesto posto nell’indice stilato da Global Slavery, che ha censito nel Paese qualcosa come 2,3 milioni di schiavi, l’1,13 per cento dell’intera popolazione pachistana.

Se entrare in una fabbrica può essere facile, uscirne è quasi impossibile. Quando la stagione dei mattoni finisce, i lavoratori possono trovare un’occupazione nelle campagne. In molti casi è l’inizio di un calvario. Spiegano ancora i volontari di Iscos: «Chi se ne va con l’approvazione del proprietario passa sotto un altro padrone che ne rileva i debiti pendenti. Alla richiesta di un’assenza di breve periodo può far seguito l’obbligo di lasciare “a garanzia” del ritorno uno dei congiunti. Per impedire la fuga, gli alloggi dei lavoratori vengono circondati da recinzioni e la proprietà sorvegliate da guardie armate. Quando poi qualcuno prova a fuggire viene riacciuffato dalla polizia, avvertita dal jamadar o dalle guardie, accusato di “furto” e riportato all’interno della fabbrica».