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Asia. Pakistan, dietrofront sulla legge antiblasfemia

Stefano Vecchia venerdì 19 giugno 2015
Il 19 giugno 2009 – esattamente sei anni fa –, la cattolica Asia Noreen Bibi veniva accusata di oltraggio al profeta Maometto da donne dello stesso villaggio, con cui aveva avuto un diverbio sull’utilizzo del pozzo comune. A rischio di linciaggio, la madre di cinque figli, oggi cinquantenne, venne messa sotto custodia della polizia e da allora – nonostante il sostegno legale all’interno e la solidarietà internazionale – è ancora prigioniera. I 2.187 giorni dietro le sbarre sono trascorsi prima in una sezione del carcere di Sheikhupura, non lontano da dove risiedeva la famiglia, ora costretta alla clandestinità, poi (dal giugno di due anni fa) in quello femminile di Multan, nella stessa provincia del Punjab ma a centinaia di chilometri dai suoi affetti. In condizioni di salute perlopiù precarie, che sono apparse preoccupanti poche settimane fa, come comunicato dai familiari e dagli attivisti in visita, per poi stabilizzarsi negli ultimi giorni.Asia Bibi vive in isolamento, dopo l’aggressione subita da una secondina nel 2011. L’unico conforto è la preghiera, che riempie le lunghe ore di attesa. Condannata a morte in prima istanza nel novembre 2010, sentenza confermata il 16 ottobre 2014, la donna è in attesa di un pronunciamento della Corte Suprema. Un caso, il suo, non unico: sono state 14 le sentenze di morte finora eseguite in base agli articoli del Codice penale noti come “legge antiblasfemia” e 19 le condanne all’ergastolo. Asia, però, è diventata il simbolo degli abusi della legislazione, sia per la durata della vicenda sia per l’accanimento che lo circonda. La palese innocenza e l’ondata di solidarietà internazionale hanno contribuito a innescare anche un dibattito riguardo alle ambiguità della legge di tutela dell’identità islamica. Una norma nata nel 1987 dall’opportunismo del generale-presidente Zia Ul-Haq per blandire gli islamisti. Il suo impiego arbitrario verso minoranze e musulmani moderati, ma anche per la risoluzione di controversie economiche e familiari, è diventata strumento di pressione e discriminazione. Oltre che di ricatto politico, come ha mostrato l’uccisione nel 2011 del governatore del Punjab Salman Taseer e del ministro per le Minoranze religiose, il cattolico, Shahbaz Bhatti, che avevano preso posizione contro la “legge nera”. Il Seminario sulla tutela della dignità del profeta che si è tenuto sabato scorso nella sede del Club della stampa di Lahore, a cui hanno partecipato una decina di influenti guide religiose, ha dimostrato con chiarezza i limiti che il tentativo in corso del governo e delle forze laiciste di intervenire sul testo della legge antiblasfemia incontrerà sul suo cammino. I relatori non solo hanno negato la possibilità di ogni modifica, ma hanno pure ribadito l’indispensabilità della pena capitale per chi venga accusato di oltraggio a Maometto. «Quando si tratta della santità del profeta, l’utilizzo di ogni legge umana cambia di significato – ha segnalato l’ex giudice Nazir Akhtar, legale dell’assassino del governatore Taseer –. Coloro che lo insultano non hanno diritti, incluso quello alla vita. Non servono tribunali e giudizi».<+RIPRODUZ_RIS>