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Africa. 10 anni, il Sud Sudan è il Paese più giovane ma minato dalle divisioni etniche

Giulio Albanese sabato 17 luglio 2021

Il Sud Sudan, come altri Paesi africani, potrebbe essere un Paese ricco, ma...

Sono trascorsi 10 anni dalla sua nascita e finora la Repubblica del Sud Sudan si è rivelata una grande delusione per i suoi abitanti. Infatti, la sua pur breve storia – segnata da un’infinità di discordie interne, legate, in gran parte, alla allocazione delle risorse e alla gestione del potere – si è rivelata fortemente travagliata e non conforme alle speranze iniziali. Si è manifestato quanto previsto da non pochi analisti alla vigilia dell’indipendenza: è diventato realtà il rischio che le formazioni partitiche sudiste, una volta ottenuta la totale autonomia dal Sudan, assumessero sempre più una connotazione etnica, come già avvenuto in molti Paesi dell’Africa subsahariana.

Si è infatti dissolto in un batter d’occhio quello che era il collante politico dell’unità nazionale: gli ex ribelli del Sudan People’s Liberation Army (Spla) che per sei anni, durante la fase di transizione prevista dagli accordi di Nairobi con il regime di Khartum (2005), avevano amministrato le regioni meridionali attraverso il braccio politico del loro movimento, lo Mpla. Una realtà caratterizzata da una gerarchia piramidale, al cui interno erano rappresentate, con qualche discrimine, piccole e grandi etnie, dai Denka ai Nuer, dagli Shilluk ai Toposa, dai Lotuko ai Kuku, dai Kakwa agli Acholi, dai Madi agli Azande.

Potrebbe essere uno Stato prospero, date le notevoli ricchezze naturali. Basti pensare al vasto bacino petrolifero

​E dire che il Sud Sudan potrebbe essere uno Stao prospero disponendo di notevoli ricchezze naturali. Basti pensare al bacino petrolifero del sottosuolo, per non parlare del grande Nilo Bianco che rappresenta una risorsa straordinaria sia per quanto concerne lo sviluppo agricolo sia per quello che riguarda la produzione di energia pulita. Come mai, allora, questo Paese, grande due volte l’Italia, sta collassando e chi sono i responsabili di questo degrado?

Gran parte delle responsabilità ricadono su due delle figure più rappresentative della lotta indipendentista contro il governo di Khartoum che ha scandito la storia sudanese dalla fine della dominazione coloniale: il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar. La tesi prevalente è che dal momento in cui hanno dovuto condividere il potere a Juba, in vista delle prime elezioni generali (mai celebrate), siano riemerse vecchie ruggini tra il primo di etnia Denka e il secondo appartenente al gruppo dei Nuer. In effetti, già negli anni Novanta, Machar aveva contestato la leadership dell’allora leader storico dello Spla, John Garang, fondando un movimento scismatico denominato South Sudan Independence Movement (Ssim).

Le divergenze, allora, riguardavano l’agenda politica della ribellione che differiva, al suo interno, a seconda dell’appartenenza etnica. Quando, poi, Garang morì in un misterioso incidente – il suo elicottero precipitò nel luglio del 2005, pochi mesi dopo la firma dell’accordo pace di Nairobi – furono in molti a sospettare che vi fosse la "longa manus" di Machar. Il successore di Garang, l’attuale presidente Kiir, ebbe anch’egli non poche difficoltà nel contenere l’esuberanza di Machar, soprattutto quando si trattò di definire la gestione delle risorse petrolifere nella regione del Grande alto Nilo. Non è un caso se lo Stato di Unity, che occupa gran parte della suddetta regione, sia ancora sotto il controllo delle milizie di Machar.

D’altronde, quando nel 1983 scoppiò la seconda guerra civile sudanese detta Anya Nya II (la prima Anya Nya era esplosa tra il Nord e il Sud Sudan addirittura prima dell’indipendenza del Paese dal Regno Unito, nell’agosto del 1955) le operazioni dei ribelli dello Spla si concentrarono proprio attorno al bacino petrolifero di Bentiu, 120 chilometri a ovest di Malakal, dove la compagnia statunitense Chevron aveva realizzato una base operativa.

È curioso, pertanto, che questo stesso scenario, con sfumature certamente diverse, si riproponga oggi con conseguenze che potrebbero davvero essere apocalittiche, considerando soprattutto il perdurare delle interferenze straniere legate al business all’oro nero e al mercato delle armi. Purtroppo, la mancanza di un dialogo franco tra le parti, dimostra che oggi nessuno dei contendenti ha le carte in regola per considerarsi estraneo al caos in cui è precipitata la giovanissima Repubblica sudsudanese. Stando alle informazioni fornite dall’Onu, l’ondata di violenza che ha investito il Sud Sudan ha causato la morte nel 2020 di 5.800 civili, molti di più rispetto a quelli del 2019 (2.631) in un Paese di 12,5 milioni di abitanti.

Ecco perché a 10 anni dall’indipendenza, sancita il 9 luglio del 2011; ad oltre 7 anni dallo scoppio dell’ennesima guerra fratricida, il 15 dicembre 2013, e a quasi 3 anni dalla firma di un accordo di pace tra Kiir e Machar, siglato il 12 settembre 2018 ad Addis Abeba, denominato Accordo rinnovato per la risoluzione dei conflitti nel Sud Sudan, la crisi umanitaria e il rischio di disastri nel Sud Sudan sono molto elevati. Secondo l’Inform Global Crisis Severity Index (un indicatore della gravità delle crisi) sono stimati complessivamente a 8,8/10. Mentre la mancanza di capacità di resilienza è valutata a 9,4/10 e la vulnerabilità a 8,1/10.

Il conflitto interno fa perno sulla rivalità fra il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar, il primo appartenente al gruppo dei Denka e il secondo a quello dei Nuer. Forti anche le interferenze di potenze straniere

​Molto preoccupante è il fenomeno della parcellizzazione del territorio sotto il controllo di numerose milizie armate. Sebbene sia stato creato un governo transitorio di unità nazionale a febbraio dell’anno scorso e aperto una sorta di Parlamento a maggio di quest’anno, il meccanismo della condivisione del potere nelle unità di governo locali non decolla per la diffidenza reciproca tra i leader delle diverse fazioni che pregiudica fortemente l’implementazione dei cosiddetti "protocolli di sicurezza" previsti dall’Accordo rinnovato.

A questo proposito è bene precisare che non tutti i gruppi ribelli attivi nel Sud Sudan hanno sottoscritto l’intesa siglata ad Addis Abeba. È per questa ragione che, prendendo lo spunto dal 10° anniversario dell’Indipendenza del Paese, papa Francesco, l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, e il moderatore della Chiesa di Scozia, Jim Wallace, hanno inviato un messaggio ai leader politici, ricordando «le grandi promesse» all’insegna della pace e della riconciliazione, fatte da Kiir e Machar, in occasione della loro visita a in Vaticano nel 2019. La verità è che la popolazione civile, indipendentemente dai gruppi etnici di appartenenza, ha assunto posizioni estremamente critiche nei confronti dei due leader. Il 75% della gente pensa che dovrebbero dimettersi immediatamente secondo i risultati di un sondaggio, pubblicato nel dicembre scorso, condotto dal Comitato di dialogo previsto dall’accordo di pace di Addis Abeba.

Nella lingua dei Denka c’è un’espressione molto comune, "cieng", traducibile con "vivere insieme in armonia". Per il momento, gli unici leader a crederci sono quelli religiosi che si prodigano nel sostenere il dialogo tra le parti. In ambito cattolico, ad esempio, è operativo da alcuni anni il progetto Kit (finanziato dalla Conferenza episcopale italiana), un centro di formazione sui temi della pace, della riconciliazione e della guarigione interiore, promosso dalle congregazioni missionarie nei pressi della cittadina di Rajaf. Un mdo concreto per formare la società civile, vivaio – si spera – delle future classi dirigenti.