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STORIE. Orissa, la fuga di Santa dai fanatici

da Bangkok Stefano Vecchia giovedì 11 dicembre 2008
Santa Nayak ha trent’anni, una vita di stenti alle spalle come la maggioranza di quelli che condividevano la vita di un villaggio abitato in maggioranza da dalit cristiani nell’Orissa. In tutto 35 famiglie di varie provenienze, segregate nel villaggio di Sourakalingam, lontano da casa, in un altro Stato dell’immensa India. Il confine tra Andhra Pradesh ¿ dove sono sfollati ¿ e l’Orissa non è lontano. Ma per chi ora vive nel terrore del ritorno, come Santa, la distanza è incolmabile, quanto lo è quella per nascita e appartenenza castale e religiosa con gli indù che l’hanno costretta alla fuga prima di costringerla all’esilio e a un futuro che semplicemente non può immaginare. La sua è una storia terribilmente emblematica di diritti umani calpestati e libertà negate.«Tutto bene» o «tutto sotto controllo» per il governo dell’Orissa, ma non è così per i 250 rifugiati che sono fuggiti nei distretti di Meliaputti e di Mandasa in Andhra Pradesh. Le assicurazioni del potere non fanno presa. Lo stesso potere che ha prima permesso che si scatenasse la violenza anticristiana e poi ha costantemente sconfessato ogni testimonianza di sopraffazione. Una violenza che ¿ come è già stato minacciato ¿ riprenderà proprio a Natale.«Due giorni dopo l’assassino di Swami Lakshmanananda Saraswati (leader indù la cui uccisione il 25 agosto è stata presa a pretesto per scatenare le violenze), il nostro villaggio è stato attaccato e le nostre case sono state danneggiate», racconta Santa. «Per salvarci siamo scappati nella foresta e da qui a piedi ci siamo diretti a Banjanagar, la cittadina più vicina, dove è possibile prendere un autobus. Abbiamo preso il primo che ci avrebbe portato fuori dal Kandhamal e siamo arrivati qui, a Meliaputti».Una storia personale, ma troppo simile a quelle di altre 25mila persone: li hanno chiamati «il popolo della foresta»; fuggiaschi non ancora rientrati nei villaggi d’origine. Oggi sono la metà di quanti inizialmente sono fuggiti dalla violenza dei fanatici indù istigati da politici senza scrupoli e da quanti hanno interessi concreti sulle terre e sulle povere cose dei tribali cristianizzati. In questa situazione Santa e gli altri fuggiaschi escludono ogni possibilità di ritorno ai villaggi che distano solo 35 chilometri. Nella grande India, oggi ferita dagli attacchi terroristici di Mumbai, ma anche da un induismo fanatico e discriminatorio, la democrazia è sotto assedio e non bastano proclami e antico orgoglio a renderne trasparenti i limiti.E nel confinante Pakistan, dove la democrazia cerca di farsi largo fra antichi interessi in conflitto e islamismo radicale, la speranza di un Natale diverso per i suoi cristiani passa anche dall’impegno politico. Shahbaz Bhatti, 48 anni, è un attivista cattolico che da poche settimane siede nell’esecutivo come delegato per le Minoranze. «Stiamo rivedendo le leggi che discriminano le minoranze religiose, in primo luogo la cosiddetta legge antiblasfemia», sostiene Bhatti. Una lotta certamente lunga e difficile, ma anche per merito del suo impegno, associato a una coscienza nuova che va facendosi strada: per la prima volta il Pakistan musulmano celebrerà quest’anno il Natale a livello nazionale. «Il governo - ha spiegato il neo-ministro - ha deciso che verranno celebrate le festività religiose delle diverse confessioni. Per il Natale non era mai avvenuto. Ci saranno appositi programmi televisivi».