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NOBEL PER LA PACE. Obama: «La guerra, tragedia a volte necessaria»

Elena Molinari giovedì 10 dicembre 2009
Il presidente del comitato del Nobel, Thorbjorn Jagland, l’ha presentato come la «realizzazione del sogno di Martin Luther King». Ma quando Barack Obama è salito sul podio, ha subito contraddetto il padre dei diritti civili dei neri cui deve la sua presenza alla Casa Bianca. «La non violenza non avrebbe fermato Hitler», ha detto. Quindi ha spiegato che i metodi pacifici che sono valsi a King il Nobel «non sono sempre pratici o possibili». Per poter accettare il suo premio Nobel per la pace, nello stesso salone che ha riconosciuto l’operato di Madre Teresa e di Nelson Mandela, il presidente americano che ha appena inviato altri 30mila soldati a combattere in Afghanistan, ha dunque difeso il concetto di «guerra giusta». Con umiltà, ma con forza. La «difficile verità» ha affermato in un sobrio discorso da 36 minuti, è che la violenza non può essere sradicata, almeno non durante le nostre vite. «Ci saranno volte – ha detto – in cui le nazioni, agendo da sole o insieme, decideranno che l’uso della forza non è solo necessario ma moralmente giustificato». La diplomazia, ha spiegato, da sola non può convincere i leader di al-Qaeda a deporre le armi. Per questo riconoscere la necessità della forza non è cinismo, ma un’ammissione «della storia, delle imperfezioni dell’uomo e dei limiti della ragione».Ai capi di Stato di buona volontà dunque anziché rinnegare l’uso della forza militare non resta che riaffermare le condizioni che rendono accettabile uccidere: «Che la guerra sia l’ultima possibilità e per autodifesa, che la forza sia proporzionata all’offesa ricevuta e che, laddove possibile, i civili siano risparmiati dalla violenza». Non sono idee nuove, ha sottolineato Obama, anche se raramente sono state rispettate nel corso della storia. Ma oggi più che mai devono guidare le azioni di una nazione che, come l’America, si trova a difendere non solo sé stessa, ma anche la sicurezza globale.Dopo aver rinnovato l’impegno del suo Paese per il rispetto della Convenzione di Ginevra e il suo personale ripudio della tortura, Obama ha difeso con passione il suo Paese, vittima di sospetti di strapotere militaristico a suo dire ingiustificati. «Il mondo deve ricordarsi che non sono state solo le istituzioni internazionali, non i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità dopo la seconda Guerra mondiale». Qualsiasi errore l’America abbia fatto, «la semplice verità è che gli Stati Uniti d’America hanno agevolato la sicurezza globale per più di 60 anni con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi».Di qui l’impegno a continuare «a fare degli Stati Uniti una forza del bene nel mondo», ma con doveri chiari. Sebbene rivendichi il diritto di agire unilateralmente se necessario, l’America si impegna dunque ad aderire agli standard internazionali che «rafforzano chi li rispetta e indeboliscono e isolano chi lo ignora». Il capo della Casa Bianca si è guardato dal dipingere un quadro “glorioso” della guerra, che ha definito invece come una delle «follie umane», ma ha evidenziato la lotta militare come un triste dovere. Per ogni capo di Stato che è chiamato a proteggere i suoi concittadini. Ma anche per la comunità internazionale, che ha il compito ineludibile di proteggere popolazioni inermi da crudeli tiranni o da battaglie fratricide. E che ha la responsabilità di «chiarire ai movimenti per la la libertà che siamo dalla loro parte». Un chiaro riferimento alle dimostrazioni per la democrazia in Iran. Purché popoli e nazioni non confondano mai guerra giusta e guerra santa. «Abbiamo visto che la religione usata per giustificare l’assassinio di innocenti da parte di coloro che hanno distorto la grande religione dell’islam e che hanno attaccato il mio Paese dall’Afghanistan – ha detto – questi estremisti ci ricordano che nessuna guerra santa può essere una guerra giusta».Obama non ha avuto la presunzione di proporre «una soluzione definitiva ai problemi della guerra», ma ha voluto ricordare che le armi ottengono poco se non sono accompagnate dal dialogo, anche con i regimi più odiosi. «Alla luce degli orrori della rivoluzione culturale, l’incontro di Nixon con Mao apparve imperdonabile – ha spiegato – eppure ha aiutato a mettere la Cina su una strada che ha sollevato milioni dalla povertà». E «l’impegno al dialogo di Papa Giovanni Paolo con la Polonia ha creato spazi non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per i leader dei lavoratori, come Lech Walesa». Perché, ha concluso, l’obiettivo della guerra non è solo l’assenza di combattimenti, ma una pace che permetta l’affermazione dei diritti umani fondamentali: «Possiamo accettare che ci sarà sempre la guerra, ma possiamo comunque adoperarci per questo tipo di pace».