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SUDAN. Darfur, in campo anche gli Usa

Paolo M. Alfieri giovedì 12 marzo 2009
«Inaccettabile». Risuona come u­na condanna inappellabile il giudizio del presidente ameri­cano Barack Obama sull’espulsione dal Darfur delle Ong decisa dal regime di Khartum. Un provvedimento adottato dal governo sudanese all’indomani della ri­chiesta di un mandato di cattura per il pre­sidente Omar el-Bashir emessa dalla Cor­te penale internazionale dell’Aja (Cpi) per crimini di guerra e contro l’umanità. Obama sa che l’Africa si aspetta molto dal mandato di un presidente americano che proprio nel continente nero vede affon­dare le sue radici paterne. E sa, Obama, che proprio il Darfur è diventato sinonimo di fallimento per l’Occidente. Dell’impos­sibilità di agire, anche per ragioni di op­portunità geopolitica, pur di fronte ai mas­sacri perpetrati negli ultimi anni da mili­zie filo-governative che hanno in Cina, Russia e altri Paesi i loro migliori alleati (anche se indiretti) in Consiglio di sicu­rezza. Se Obama vuole acquisire autorevolezza nel continente nero, il Darfur è il suo Iraq africano, il banco di prova davanti al qua­le provare il nuovo corso della politica a­mericana a livello globale. «Abbiamo una crisi potenziale di dimensione ancora più grandi di quelle che già vediamo», ha sot­tolineato il nuovo inquilino della Casa Bianca durante il suo primo incontro con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. «Non è accettabile mettere a rischio le vite di molte persone – ha af­fermato ancora Obama – Dobbiamo es­sere in grado di far tornare sul terreno que­ste organizzazioni umanitarie». Sono 5 milioni nel Darfur le persone che dipendono dagli aiuti. Una situazione per la quale Obama è «estremamente preoc­cupato ». Per questo «gli Stati Uniti voglio­no lavorare il più attivamente possibile per risolvere l’immediata crisi umanitaria e per avviarci verso una pace a lungo ter­mine e stabilità in Sudan». Quali passi sia possibile compiere davan­ti a un regime come quello di Khartum che alle critiche Usa ha già risposto ricordan­do a Washington i suoi «genocidi» (in Viet­nam, Iraq e Palestina) è difficile da capire. Più che su el-Bashir (invitato dal Qatar al vertice della Lega Araba del 30 marzo a Doha) secondo diversi analisti sarebbe meglio concentrare le pressioni interna­zionali su Pechino e Mosca, che con il Su­dan commerciano (con soddisfazione re­ciproca) in armi e petrolio. Ma in cambio il mondo (e soprattutto Washington) qual­cosa dovrebbero concedere, ma quel qual­cosa non è del tutto chiaro e scontato. Nel frattempo l’allarme resta. I rapporti Onu parlano di 300mila vittime e di 2,5 milio­ni di sfollati. E di un dialogo arenatosi sul muro contro muro tra il regime di Khar­tum e i gruppi ribelli locali. Attualmente non c’è spazioe di mediazione tra i con­tendenti e il timore di molti è che il man­dato di cattura contro el-Bashir non fac­cia altro che peggiorare il quadro, ren­dendo ancora più nette le posizioni del re­gime. Ma c’è anche chi sottolinea come anni di violenze e abusi non possano re­stare impuniti, e che quindi la decisione dell’Aja costituisce un segnale importan­te all’indirizzo del regime. La Casa Bianca, all’indomani del manda­to di cattura, era stata chiara: «Chi ha com­messo atrocità deve essere chiamato a ri­sponderne », era stato il messaggio rivolto a Khartum. Ma il margine di manovra, con un el-Bashir sotto accusa ma ancora così ben protetto, è inevitabilmente ridotto an­che per un Obama che dal Darfur vorreb­be trarre una vittoria importante per far rinascere, come da titolo del suo primo li­bro, i sogni del suo padre keniano. L’assistenza a un bimbo in Darfur (Ap). In basso, al centro: équipe di Medici senza frontiere