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Somalia: tenere alta la guardia. Non c'è tempo da perdere

Giulio Albanese sabato 4 febbraio 2012
Secondo le Nazioni Unite, la famigerata carestia che ha afflitto per lunghi mesi la Somalia sarebbe tecnicamente finita con l’arrivo delle piogge. Un annuncio che va decisamente preso con beneficio d’inventario. Anche perché, nonostante i discutibili – e, difatti, discussi – criteri di valutazione del Palazzo di Vetro, da quelle parti, nel lembo estremo del Corno d’Africa, circa un terzo della popolazione ha ancora bisogno degli aiuti di emergenza. Ma per comprendere meglio la materia di cui stiamo parlando è bene ricordare che l’Onu dichiara lo «stato di carestia» quando in una determinata area di crisi un bambino su tre è malnutrito e, ogni giorno, un bambino su 2.500 muore per fame. Dato che è molto difficile monitorare ciò che realmente accade sul campo, questo genere di emergenze viene dichiarato con molta cautela. Nel caso della Somalia non accadeva dal 1992. D’altronde, anche le stesse agenzie umanitarie ritengono che bisognerà aspettare almeno tre mesi perché i temporali possano davvero concedere tregua a uno dei territori più torridi del nostro pianeta. Tuttavia, ammesso che l’acqua torni a bagnare la Somalia, il futuro rimane decisamente incerto. Anzitutto perché bisognerà vedere quali orientamenti verranno adottati dalla comunità internazionale per garantire la sopravvivenza della stremata popolazione civile. Secondo alcuni osservatori, con la fine dello «stato di carestia», almeno in parte, verrebbe meno la giustificazione di un intervento militare straniero (come, ad esempio, quello del Kenya), legittimato sul piano del diritto internazionale, dal cosiddetto principio d’ingerenza umanitaria responsibility to protect). Peccato che la Somalia continui a essere quella di sempre: un campo di battaglia. Nel Paese si continua a combattere, perpetuando una crisi militare che sta contaminando i Paesi limitrofi, per il perdurare degli attacchi dei miliziani del gruppo estremista islamico al-Shabaab contro il governo federale di transizione del premier Abdiweli Mohamed Ali. Una speranza reale di cambiamento è legata all’esito della Conferenza di Londra in programma il 23 febbraio, che rappresenta – almeno sulla carta, e speriamo che l’Italia sappia svolgere un degno ruolo – una tappa importante per raccogliere il sostegno della comunità internazionale. Una cosa è certa: non c’è un minuto da perdere, non foss’altro perché, fino a quando permarrà in Somalia una condizione di totale insicurezza, non sarà possibile creare le condizioni per un reale riscatto del Paese. Come ha rilevato il direttore della Fao, Josè Graziano da Silva, «bisogna mettere la popolazione locale nelle condizioni di rispondere all’emergenza collegando le azioni di soccorso allo sviluppo duraturo». Ed è proprio questa la nota dolente, considerando che le responsabilità, a tale riguardo, sono trasversali e riguardano l’intero consesso delle nazioni. E sì, perché se da una parte è evidente che la Somalia rappresenta la linea di faglia tra opposti interessi geostrategici, legati – almeno in parte – al controllo delle immense fonti energetiche presenti nel sottosuolo (che vanno dal petrolio al gas naturale fino all’uranio), vi sono anche altre negligenze che coinvolgono le classi dirigenti locali (troppo spesso avide di denaro) e di certi grandi benefattori (o presunti tali). Da troppi anni a Mogadiscio e dintorni, come anche nel resto del Corno d’Africa, la comunità internazionale anziché promuovere una cooperazione allo sviluppo che tenga conto degli effettivi bisogni del territorio, ha risposto spesso e volentieri alle cicliche calamità climatiche, poco importa che si trattasse di siccità o di inondazioni, promuovendo interventi d’emergenza con modalità che hanno finito per acuire a dismisura la dipendenza delle popolazioni dagli aiuti stranieri. Un’emergenza nell’emergenza, e anche questa non finisce.