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8 marzo. BETANCOURT: «Non odio gli uomini che hanno rubato 6 anni della mia vita»

Lucia Capuzzi sabato 8 marzo 2014

Duemilatrecentoventuno. Li ha contati, uno dopo l’altro, i giorni trascorsi nella giungla colombiana: con dolore, a volte con rabbia, mai con rassegna­zione. I sei anni da “prigioniera numero uno” delle Fuer­zas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) non han­no piegato Ingrid Betancourt. A vederla camminare con grazia per le sale del Dock Eurosites di Parigi, sembra im­possibile che questa cinquantaduenne elegante, giovani­le, raffinata sia la stessa immortalata dalla guerriglia con i capelli lunghissimi, il volto tirato e gli occhi bassi e mostrata al mondo come un trofeo nel 2007. Eppure è lei. La stessa Ingrid, con lo stesso sogno: contribuire alla pace, in Co­lombia e nel mondo. Prima lo ha fatto come senatrice e candidata alla presidenza, ora come cittadina e presiden­te della Fondazione che porta il suo nome. È in Francia per l’incontro “Donne contro il fondamentalismo” organizza­to dal Consiglio nazionale della resistenza iraniana. La battaglia per il riconoscimento dei diritti femminili è tra le sue priorità. Perché?So per esperienza quanto può essere perverso il percorso verso il disconoscimento dei diritti dell’altro. Sono stata vit­tima di una guerriglia comunista che mi ha sequestrato. Ma sono stata anche vittima dell’indifferenza dei miei com­patrioti. Di chi diceva: “Non si deve negoziare con le Farc, altrimenti le rafforziamo. Dobbiamo sacrificare i rapiti”. Di fronte a prospettive come questa, io mi ribello. Ogni idea che porti a violare i diritti di un altro essere umano è sba­gliata e pericolosa. Noi donne dobbiamo essere le prime a combatterle. Per il vissuto – passato e ahimè spesso presente – di negazione delle nostre prerogative, sappiamo guardare il mondo con gli occhi del debole. Trasmettendo questa capacità non difendiamo solo noi stesse: proteg­giamo i bambini, gli anziani, i malati.  In una parola, è una questione di democrazia. Il tentativo di negare i diritti femminili conduce inevita­bilmente verso regimi arbitrari. Se un sistema consente all’uomo di sottomettere la donna, a che titolo questi può protestare perché viene oppresso dal governo? Lottare per diritti delle donne, dunque, significa lottare per la demo­crazia: e in queste battaglie, io sto sul campo.Ora lo fa come attivista. E domani? Lascerà Oxford dove studia Teologia per tornare in politica a Bogotà? Non lo escludo. Per molti anni, non me la sono sentita e ho detto: basta con la politica. Il processo di pace mi ha ri­dato la speranza che le cose possano cambiare. Pertanto mi sento pronta a rivedere la mia posizione.Crede che stavolta i colloqui tra governo e Farc, in corso da oltre un anno, saranno risolutivi? Sono negoziati difficili, in condizione, tuttavia, favorevo­li. Certo, altre due volte il mio Paese è stato ad un passo dal mettere fine al conflitto. Ed in en­trambe le occasioni ha perso l’appun­tamento con la storia. Le presidenzia­li del 25 maggio saranno decisive. Se vince il presidente Santos, credo che la Colombia ce la farà. Perché?Prima di tutto, perché Juan Manuel Santos, come mi­nistro della Difesa del governo Uribe, è stato colui che ha prostrato mili­tarmente le Farc. Ha dunque un’e­norme credibilità. Non possono ac­cusarlo di debo­lezza come hanno fatto con l’ex pre­sidente Andrés Pastrana (che tentò un negoziato,  ndr ). Santos, i­noltre, pur partendo da una posizio­ne di forza, ha convocato i guerri­glieri a un tavolo, trattandoli con ri­spetto. Per questo, le Farc hanno ac­cettato di negoziare proprio con chi le ha indebolite. Santos non ha un atteggiamento ostile. È un moderno amministratore che vuole risolvere un problema. Per far­lo, agisce con coraggio. Non dimentichiamo che in Co­lombia, tanti gruppi boicottano il processo di pace perché hanno costruito il loro potere politico ed economico sul­la guerra.Come fa ad essere così lucida nei confronti di quei guer­riglieri che le hanno rubato parte della vita? È una questione di coerenza. Ho sempre creduto che la Colombia dovesse percorrere la via della pace. E ho con­tinuato a pensarlo anche mentre ero prigioniera. Lo dice­vo ai guerriglieri: la logica del muro contro muro non ha senso. Forse perché io e i miei figli abbiamo vissuto il dramma della guerra sento l'obbligo morale di dare il mio contributo per mettervi fine.Sarebbe disposta a star seduta nella stessa Assemblea con ex esponenti delle Farc? Non solo sarei disposta a farlo, ma spero che agli ex guer­riglieri sia con consentito di partecipare alla politica. De­vono smettere di affermare la loro prospettiva con la vio­lenza e discuterla dentro il Congresso. La democrazia esi­ste proprio perché persone con idee differenti non deb­bano uccidersi per imporle. Nella Colombia pacificata non può esserci spazio per la vendetta. Ha perdonato le Farc? Sì. Ma il perdono è un esercizio quotidiano (fa una lunga pausa, poi riprende ndr ). Perché fa male. L’altro giorno, mia figlia mi ha mostrato tre lettere che lei, il fratello e suo padre mi avevano scritto il 28 ottobre 2002, ero nella giun­gla da meno di un anno. Le abbiamo lette insieme, ci sia­mo emozionate… A un certo punto lei mi ha detto: “Mi co­sta perdonarli”. Le ho risposto: “Anche me. Ma non c’è al­tra opzione. Non possiamo vivere il resto della vita sotto il peso dell’odio”. Il perdono non è un regalo che si fa all’al­tro. Lo si fa a se stessi perché si può riabbracciare un es­sere umano e dirgli: “Mi hai fatto soffrire ma ti riconosco come mio simile, uomo”. La fede la aiuta in questo percorso? Tanto. Essere cristiani significa riconoscere all’altro, in o­gni altro nessuno escluso, la sua umanità. A proposito, da latinoamericana, le piace papa France­sco?No. Lo amo… (ride).