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Odio e fretta corrompono le parole. I terroristi di Parigi: non diteli martiri

Umberto Folena domenica 11 gennaio 2015

Le parole sono importanti. Le sfide, anche le più nobili, si vincono o si perdono anche sul filo delle parole. Parole che vengono rubate, corrotte, svuotate e riempite di senso diverso, perfino opposto all’originale. Le parole sono importanti perché non si limitano a descrivere la realtà ma, facendolo, la ricostruiscono, la modificano e la codificano.Se le parole sono importanti, le parole martire e martiri sono importantissime. Sono parole che parlano di milioni di cristiani che hanno dato la vita pur di restare fedeli a Cristo, pur di non tradire anche quando il prezzo era, ed è, il più alto possibile. È una parola così importante che, negli ultimi due secoli, è stata assunta in ambito laico e accanto ai martiri della fede cristiana ci sono i martiri della patria, i martiri della mafia, i martiri del lavoro, i martiri del totalitarismo. Fedeli alle proprie idee, testimoni fino alla morte. Negli ultimi giorni si è parlato di un martire prossimo alla beatificazione, l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, che ha versato il suo sangue letteralmente sull’altare, stringendo quel Cristo eucaristia a causa del quale è stato trucidato. Proprio perché sono importanti, molto importanti, per le parole è necessario lottare. Quando i terroristi – che dicono di ispirarsi all’islam e di agire nel nome del Profeta – si definiscono martiri e affermano di essere disposti al martirio, anzi di cercarlo, occorre dire no. Non è vero, non sono martiri. Non nell’accezione nostra, occidentale. Neanche nell’accezione di larghissima parte dell’islam. E quando parliamo di loro – noi giornalisti della carta stampata, dei telegiornali e dei giornali radio; noi uomini e donne della politica; noi cittadini semplici – dobbiamo evitare di definirli martiri, e nel riportare le loro dichiarazioni abbiamo l’obbligo di prendere le distanze, spiegando perché non sono martiri ma pluriomicidi con pulsione suicida. Peggio: sono criminali capaci di imbottire di esplosivo se stessi e persino una bambina di 10 anni e farla esplodere, è accaduto proprio ieri, in un mercato in Nigeria, ammazzando e ferendo decine e decine di esseri umani. Questo è il loro concetto di martirio.  Il martire è tutt’altra cosa. Il martire è sempre disarmato. Ama, non odia. È incapace di qualsiasi violenza. Non cerca il martirio ma, se costretto, è disposto a subirlo. La sua testimonianza è mite e pacifica. Quegli altri, i pluriomicidi con pulsione suicida, possono definirsi come pare a loro. Possono rifarsi a un’interpretazione dell’islam, secondo la quale la shahada (testimonianza) e il shahid (colui che compie il jihad, la 'guerra doverosa') prevedono l’omicidio, il massacro con il sacrificio della propria vita. In realtà l’islam condanna duramente il suicidio. Gli studiosi dell’islam ne discutano. Per noi è importante, ma non decisivo. Quelle parole, martire, martiri e martirio, non possono essere rubate e corrotte. Se entrassero nel linguaggio comune nel senso voluto dai pluriomicidi suicidi, avremmo perso due millenni di storia, di umanità e di fede e una parte importantissima di noi. Metteremmo Romero accanto ai fratelli Kouachi e sarebbe – questa sì – un’orribile bestemmia, sarebbe uno svendere il nostro eroe buono, pacifico e disarmato. Le parole sono essenziali. A chi in queste ore si chiede che cosa può fare, e magari si sente impotente, e magari non ha (o sa più usare) l’arma totale della preghiera, diciamo che c’è una battaglia fondamentale da fare per le parole e con le parole. Difendendole dall’aggressione dei violenti e dalla dabbenaggine dei distratti.