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L'intervista. Il cardinale Brenes: «Le chiese del Nicaragua sono ospedali da campo»

Lucia Capuzzi lunedì 6 agosto 2018

«Pensavo fossero mediatori. E, invece, complottavano con i golpisti». Ha scandito l’ultima parola con decisione. Poi, in una Plaza de la fé tinta di rosso e nero per il 39esimo anniversario della rivoluzione anti-Somoza del 19 luglio – ma non così affollata come gli anni scorsi –, il presidente Daniel Ortega si è lanciato in una raffica di insulti contro la Conferenza episcopale nicaraguense. Quegli stessi vescovi a cui il governo – d’accordo con l’opposizione – aveva chiesto ad aprile di fare da garanti di un processo di dialogo per uscire dalla crisi. Il pubblico “je accuse” non ha tolto il sonno al cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua e presidente della Conferenza episcopale. «Perché farmi amareggiare da affermazioni prive di fondamento?». Non gli ha fatto perdere lo slancio neppure l’aggressione subita a Diriamba, insieme al nunzio Waldemar Stanislaw Sommertag, all’ausiliare Silvio Báez e a vari sacerdoti. Dopo oltre cento giorni di tensioni che dilaniano il Paese, il cardinale Brenes conserva la sua serenità disarmante.
Eminenza come fa?
Mi dà forza sapere che, in tutto il mondo, la gente prega per il Nicaragua. L’ondata di solidarietà spinge me e i miei fratelli vescovi a proseguire nel cammino intrapreso al servizio della nazione.
Si riferisce al sostegno al dialogo nazionale tra governo e opposizione?
Non c’è altra via d’uscita.
L’ultima riunione è avvenuta 49 giorni fa. Crede che le parti torneranno al tavolo?
Magari non ha dato i frutti sperati, ma il dialogo è vivo. E ci sono stati passi avanti. Il fatto stesso che il presidente si senta messo in discussione, lo dimostra. Non dimentichiamo che solo il negoziato ha permesso la realizzazione di un’indagine internazionale sulle violenze. Sempre grazie a quest’ultimo, una commissione indipendente ha potuto entrare nelle carceri per tutelare i diritti dei giovani arrestati, sebbene negli ultimi tempi stiano cercando di impedirlo.
Ma è ancora possibile una mediazione dei vescovi dopo che il presidente vi ha definiti golpisti? Sembra che Ortega sia determinato a togliervi l’incarico…
Il governo non ci ha detto niente in modo diretto. Escono delle mezze frasi sui giornali. Non vi presto troppa attenzione. Abbiamo ricevuto una precisa richiesta, scritta, di assumere il ruolo di mediatori e garanti. Sarebbe corretto che un’eventuale “rimozione” dal tale incarico avvenisse nella medesima forma.
Come ha reagito alle accuse del presidente?
Quando ho sentito il discorso, mi sono inginocchiato di fronte al Santissimo Sacramento. Ho chiesto al Signore di aiutarmi a non lasciarmi turbare. E mi è tornato in mente il brano di Matteo: «Pregate per quanti vi insultano». Allora ho sentito una pace profonda.

È, però, vero che molte parrocchie hanno aperto le porte ai manifestanti. La Chiesa sostiene l’opposizione?
Nel 1979, nell’apice della lotta contro la dittatura di Somoza, molti giovani sandinisti hanno trovato rifugio nelle chiese. Addirittura ci sono state “occupazioni” di templi da parte dei ragazzi in fuga dalla polizia. È toccato anche alla parrocchia di Jinotepe dove stavo. Allora come oggi, i sacerdoti prestano un aiuto di tipo umanitario e non politico. Papa Francesco dice sempre che, di fronte alle troppe guerre nel mondo, la Chiesa deve essere un ospedale da campo. Le parrocchie del Nicaragua sono ospedali da campo. Aperti a tutti, senza differenza di posizioni politiche. Spesso lo sono nel senso letterale del termine. Abbiamo creato piccoli ambulatori di emergenza per curare i feriti. Ribadisco: qualunque ferito: poliziotto o dimostrante.
Perché avete chiesto al governo di anticipare le elezioni al marzo del 2019?
Lo abbiamo fatto il 7 giugno, durante un colloquio molto cordiale con il presidente e la sua famiglia. Abbiamo chiarito che non si trattava di una nostra proposta. La Conferenza episcopale, bensì, gli sottoponeva un’istanza condivisa da gran parte della popolazione. Cinque giorni dopo, il capo dello stato ci ha risposto con una lettera garbata, in cui si diceva disposto a esaminare la richiesta. Per questo siamo rimasti sorpresi dal tono del discorso del 19 luglio.
Ortega sostiene che la crisi è finita e il Paese è tornato alla normalità. È così?
Una normalità sui generis: dal primo pomeriggio le città sono deserte. Abbiamo perfino dovuto sospendere le celebrazioni serali. Il malcontento c’è. Anche se le marce sono meno intense. L’Alleanza civica – che riunisce le diverse forze sociali d’opposizione – sta cercando nuove strategie per ottenere il cambiamento voluto dalla gente.