Mondo

Brasile. Nell'inferno di Manaus in Amazzonia la tempesta Covid è all'inizio

Lucia Capuzzi venerdì 24 aprile 2020

Riti funebri e sepolture collettivi nel cimitero di Manaus

«Scusi la voce, mi sto riprendendo ora. Ho avuto la febbre alta per una settimana. Covid? Chi lo sa, non ci sono tamponi». Marcivana Rodrigues Paiva appartiene al popolo SeteréMawé. Risiede, però, da tempo, a Manaus, capitale dello Stato di Amazonas e principale metropoli amazzonica, su cui il coronavirus ora si abbatte come la tempesta perfetta. Il primo caso là è stato confermato il 13 marzo. Da allora il contagio galoppa: con 762 malati ogni milione di abitanti, il ritmo è quasi triplo rispetto al resto del Brasile, il primo in America Latina, con 45mila infettati e quasi 3mila morti. E la velocità di diffusione, secondo gli esperti, potrebbe crescere ancora: la pandemia, dunque, è solo all’inizio. A Manaus, inoltre, va il record di mortalità: 72 decessi ogni milione di abitanti. E queste sono solo le cifre ufficiali, riflesse nei numeri assoluti di poco più di 2mila infettati e 180 vittime. La realtà è ben più drammatica.

Riti funebri e sepolture collettivi nel cimitero di Manaus - Reuters

«Sono stato nella baraccopoli di Cidades de Deus. Delle 45 famiglie che ho visitato, tutte avevano un componente malato. Di cosa? Impossibile dirlo senza test. Avevano tosse, febbre, difficoltà a respirare», racconta il missionario Luis Modino. Metà dei 2,2 milioni di abitanti di Manaus è povera. Ogni anno, tra i 30 e i 40mila indigeni amazzonici fuggono nelle metropoli spinti dal furto delle terre. E si riversano nelle oltre cinquanta favelas che circondano la metropoli. «La violenza dello sradicamento è feroce. Lo Stato non li riconosce come indigeni. Per questo non entrano nelle statistiche ufficiali, ferme a dieci nativi deceduti», racconta Marcivana, referente della Coordinação dos povos indígenas (Copime), che si occupa di nativi in contesto urbano. «Tanti, tantissimi sono malati. La gran parte non va in ospedale perché tanto sanno che non li assisteranno».

Riti funebri e sepolture collettivi nel cimitero di Manaus - Reuters

Gli ospedali sono al collasso. Nemmeno in quelli privati ci sono letti disponibili in rianimazione. Il governatore Wilson Miranda Lima aveva lanciato l’allarme affollamento già alla fine di marzo. Misura criticata dal governo del negazionista Jair Bolsonaro. Alla fine, da Brasilia è arrivata una una clinica da campo – già piena – e alcune celle frigo per conservare i corpi dei defunti in attesa della sepoltura. Nel cimitero di Nossa Senhora Aparecida non c’è più spazio e la Prefettura sta facendo scavare delle fosse comuni. Le autorità hanno sepolto 1.330 cadaveri nelle prime tre settimane di aprile, tutti morti di non si sa bene cosa dato che non ci sono test. Due giorni fa, il prefetto Arthur Virgilio Neto ha rivolto un pubblico appello, in lacrime. Al momento, però, Brasilia continua a glissare. Mentre nella prima conferenza stampa, il neoministro della Salute, Nelson Teich, ha definito «inutile» la quarantena e ne ha annunciato l’imminente fine. Peraltro tutt’altro che rigida, tranne negli Stati di Rio e San Paolo.

Riti funebri e sepolture collettivi nel cimitero di Manaus - Reuters

In Amazonas, la popolazione è stata solo invitata a stare a casa. Eppure, con 531 posti totali nelle terapie intensive – 13 ogni 100mila abitanti, il 40 per cento in meno rispetto al resto del Brasile, tutti concentrati a Manaus –, già in condizioni normali, il panorama sanitario della regione è grigio. Specie in questo periodo dell’anno, la stagione delle piogge, in cui c’è il picco di infezioni respiratorie. «Ora siamo allo stremo. Il personale scarseggia e i pochi medici e infermieri in servizio lavorano senza protezioni», spiega José Rocha, giornalista. «La gran parte della gente, però, non è consapevole del rischio. Strade e mercati sono pieni – conclude padre Paulo Tadeu Barausse, gesuita e coordinatore del Servizio di azione amazzonica –. Anche grazie alle affermazioni irresponsabili del presidente».