Mondo

TURCHIA. Nella roccaforte islamica che fa il tifo per Erdogan

Giorgio Ferrari sabato 8 giugno 2013
«Io non amo Erdogan e non tutto quello che decide mi piace, ma questa volta ha ragione lui: quelli di Gezi Park sono dei provocatori, manipolati dalla sinistra e forse, dico forse, con qualche aggancio all’estero». Il volto che potrebbe essere il calco di un guerriero troiano, Bayram squadra dietro la montatura Dolce e Gabbana lo straniero che ha osato avvicinarsi alla moschea nel giorno di preghiera. «Sei qui per parlare male della Turchia? Del governo? Dei turchi?» No, per ascoltare. «E allora ascolta: noi siamo una civiltà piena di contraddizioni, ma siamo una democrazia. E vogliamo esserlo sempre». Benvenuti a Eyüp, culla della Istanbul religiosa, dove il ricordo dei laicismo forzato di Kemal Atatürk è il grande rimosso e la voce del Profeta risuona in ogni angolo di strada, fra le dita delle donne che sgranano i rosari, fra le pagine del Corano che gli studenti sfogliano con trattenuto fervore, e dove più di un secolo fa Pierre Loti passeggiava sulle rive del Corno d’Oro con la sua amata Aziyadè sospirando sul crepuscolo dell’impero ottomano mentre scriveva “La Turquie agonisante”. Ekmel è un attivista dell’Akp, il partito che ha vinto tre volte le elezioni e che con il 49,8 per cento dei suffragi e 326 deputati consente a Erdogan di governare credendosi il Pasha di Costantinopoli e dimenticandosi che la democrazia non assegna alla maggioranza vincitrice il potere assoluto. «Erdogan ha riportato l’orgoglio di essere credenti – dice – e questo ha un prezzo. Quello di sacrificare qualcosa della modernità. Dei vizi della modernità. Per questo io, che sono credente, l’ho votato e lo rivoterò, se necessario». A Eyüp Erdogan raggiunge picchi dell’85 per cento dei voti. «Essere religiosi non significa essere retrogradi», interviene la giovanissima Gulden. «Proprio no – dice Melis, la prima donna a capo scoperto che incontro a Eyüp –: io leggo, scrivo, viaggio, vado all’estero, sono cittadina del mondo come immagino lo sia tu, giornalista, però sono qui a pregare di venerdì e non sono convinta che la libertà assoluta sia l’unica via per una società avanzata». «Io so perché lei è qui – dice Damla, trentadue anni, tre figli, un bel volto intelligente –: perché le hanno spiegato che in questo quartiere trova i più forti sostenitori di Erdogan. Non è così?».In effetti è così. Ma come spesso accade, la realtà supera e contraddice ogni più benevola congettura. Ma la polizia, la brutalità, le cariche, i gas, i getti degli idranti, i morti, gli arresti? «Inevitabili – dice Okan – quando si passa il segno. Lo sa quanti danni hanno fatto i contestatori? Vetrine infrante, barricate, auto incendiate. Cosa si aspettavano?» Passeggiare per Eyüp e Çaramba, distretti ultraconservatori solo a un paio di chilometri di distanza da Gezi Park è quasi choccante. Di qua una Turchia che vorrebbe rimanere senza tempo anche se della modernità coglie le comodità tecnologiche (quante matrone velate con il cellulare all’orecchio? Centinaia, anche dentro la moschea) e le opportunità di benessere, di là, a Gezi Park, un brulicare ininterrotto di giovani, un cantiere aperto che giorno dopo giorno si va a strutturare come una cittadella della protesta pacifica, con stand, ricoveri, seminari, chioschi per la distribuzione del cibo, pattuglie di medici volontari e una falange di giovani che raccolgono i rifiuti e tengono pulita la piazza Taksim. Sulla facciata del centro culturale intitolato al padre della patria Atatürk campeggia un gigantesco tazebao: c’è scritto «Erdogan, stai zitto!» Ieri il premier ha parlato. Conciliante, a quanto sembra, preoccupato forse più dal silenzio rumoroso della casta militare, che lui davvero ha azzittito falcidiandola di processi, incriminazione e degradazioni, ma che in molti sospettano soffi sul fuoco del dissenso.Mi assicura Serap Mahmatli, interprete e sociologa: «La maggior parte di questi ragazzi non ha nessuna appartenenza ideologica, nessuna tessera di partito, nessun credo politico da rivendicare. E sono tutti di classe medio-alta, con buoni studi in corso o alle spalle e buone famiglie di provenienza. Ed è questo che rende interessante il fenomeno. Non è la primavera araba e nemmeno quella turca. È uno dei tanti momenti di cambiamento della Turchia». Ma tu, Serap, da che parte stai? «Con questi ragazzi e anche con Erdogan. Ciascuno sta facendo la sua parte, uno governa, l’opinione pubblica corregge, modifica. La democrazia è questa. Speriamo che non se la scambino, la parte».